“In 3-4 anni raggiungeremo il pareggio delle attività in Italia e in Europa”. Parola di Sergio Marchionne che, davanti al premier Mario Monti, ribadisce la promessa di portare in produzione negli impianti italiani 17 nuovi modelli e 7 aggiornamenti di prodotto da qui al 2016. E’ una svolta tricolore “non adatta ai deboli di cuore” che comporta, solo per Melfi, investimenti per più di un miliardo giustificati, tra l’altro, dall’arrivo della Jeep.
Ma, al di là dei numeri, è la conferma che è cambiato l’approccio nei confronti del Bel Paese “dove la Fiat – ha ripetuto in questi anni l’ad del Lingotto – non ha guadagnato una lira da decenni”. Al contrario, oggi Marchionne tiene a ripetere che “la scommessa che stiamo facendo sull’Italia non è una strategia azzardata” perché “possiamo e dobbiamo fare dell’Italia una base per la produzione di veicoli per tutto il mondo”. C’è a chiedersi, a questo punto, che cosa significa questo cambio di rotta rispetto alla partita Chrysler.
Ovvero se, in termini finanziari, la Fiat è in grado di sostenere in contemporanea la doppia sfida: l’accelerazione degli investimenti in Europa e completare l’acquisto del 41% di Chrysler .
Quel che è sicuro è che Marchionne non intende certo allentare la presa su Chrysler proprio ora che l’alleanza Torino-Detroit comincia a dare i frutti più sostanziosi (vedi boom della 500, i programmi per l’Alfa, i piani di espansione di Jeep in Europa ed in Cina). Il nuovo sforzo in Italia, semmai, discende dalla volontà dell’ad di stringere il più possibile (e il più in fretta possibile) i legami tra l’Italia e Detroit, vuoi sul piano dell’integrazione produttiva che della gamma commerciale in offerta. Ma, soprattutto, si tratta di dare una risposta alle inquietudini degli stakeholders americani: ha senso, si chiedono a Detroit affidare la cassa di Chrysler ad un’azienda che brucia cassa alla velocità con cui Fiat ne sta bruciando in Europa?
Non si rischia così di sacrificare il tesoro, frutto dei sacrifici dei metalmeccanici Usa, per sistemare i conti di un’azienda senza speranza? Marchionne sa che per rispondere alla domanda occorrono fatti, non solo parole. Solo l’inversione del trend in Europa può convincere fino in fondo l’opinione pubblica Usa. Certo, Marchionne gode di un’altissima reputazione in Usa, ma non mancano i nemici. E poi, un conto è magnificare le qualità di manager del ceo del turnaround, altro è cedere la cassa ad una corporation che perde colpi sul mercato domestico.
Gli investimenti in Italia, dunque, sono la chiave d’accesso per chiudere la partita americana. Fiat, che oggi possiede il 58,5% di Chrysler, ha bisogno di salire al 100% della Casa americana se vuole attingere al suo cash flow (circa 1 miliardo di euro all’anno nei prossimi anni) e sostenere la doppia sfida. Infatti, i covenant (i vincoli) sul debito impediscono a Chrysler di distribuire liquidità alla controllante. Invece Fiat, che nel disastrato mercato europeo dell’auto “brucia cassa”, ha estremo bisogno di quella liquidità: nel 2012 la perdita operativa in Europa sarà di 700 milioni di euro. L’operazione, insomma, si ha da fare. Ma a che prezzo?
Il caso ha voluto che proprio poche ore prima dell’incontro di Melfi sia arrivata da Wall Street la notizia che General Motors ha acquistato dal governo Usa 200 milioni di titoli della casa, ovvero il 5,5% del capitale, con un premio del 7,8% rispetto alle quotazioni di Borsa. In questo modo, la Government Motors (come era malignamente definita la società salvata da Washington nel 2008) è tornata ad essere del tutto privata, anche se restano 300 milioni di azioni che il governo intende vendere entro il 2014. Ma l’operazione ha avuto un costo per il contribuente: a questi prezzi, infatti, il Tesoro accusa una perdita di circa 12 miliardi di dollari. Al contrario, è bene sottolinearlo, la Chrysler italiana non è costata un solo dollaro: in Gm, infatti, Washington ha investito in azioni mentre per Chrysler, azienda che sembrava spacciata, si è limitata a prestar quattrini “ad un tasso da usuraio” si è lamentato Marchionne che non a caso ha estinto non appena possibile il debito.
Il valore del 41,5% oggi in mano al fondo Veba del sindacato dell’auto sarà deciso, in queste settimane dal giudice del Delaware chiamato a dirimere la contesa tra Fiat che rivendica la lettera degli accordi del 2009 e i rappresentanti delle tute blu che chiedono un prezzo più aderente ai valori dei concorrenti, cosa che rende molto importante il riferimento alla transazione tra Gm e Washinton. La valutazione di Chrysler, basata sui multipli di GM, è di 10,7 miliardi di euro a livello di Enterprise Value. Tolto il debito, il valore dell’equity si aggira sui 5,5 miliardi, per cui il 41,5% controllato da Veba dovrebbe valere circa 2,5 miliardi di euro. Tra Fiat e Veba c’è un accordo per cui Fiat può acquistare ogni sei mesi il 3,3% di Chrysler a un prezzo determinato secondo i multipli medi del settore auto. Ma quando questa estate Marchionne è andato a esercitare l’opzione, Veba ha contestato il prezzo.
Fiat intende pagare le azioni Chrysler sulla base di una valutazione del 100% dell’azienda pari a 4,4 miliardi di dollari. Secondo Veba, invece, il 100% di Chrysler vale 10,4 miliardi di dollari, quindi Fiat dovrebbe pagare 4,36 miliardi di dollari (3,3 miliardi di euro) per il 41,5%. La partita si deciderà, dunque a giorni, al tribunale del Delaware. E sarà decisiva per le prossime mosse di Fiat. Si capirà, in particolare, se l’azienda potrà finanziare il doppio impegno con i mezzi in cassa oppure se sarà necessario vendere qualche partecipazione. Oppure se si dovrà bussare alla porta del mercato finanziario, Certo, come ha dimostrato la reazione di Piazza Affari alla voce (smentita) di un aumento, non è il caso, almeno per ora , di battere quella via. Ma le alternative (cessione di controllate o partecipate, ad esempio) non mancano . Insomma, non solo è possibile accelerare in contemporanea sul circuito italiano e su quello di Detroit. Ma, probabilmente, è l’unico modo per non andare fuori strada. E Marchionne lo sa.