X

Fiat: 80 anni fa nasceva Mirafiori, fabbrica simbolo

FIRSTonline

Un anno che più di altri ha cambiato nel secolo scorso la storia industriale del Paese è stato il 1939. Quell’anno fu inaugurato il nuovo complesso produttivo di Mirafiori, su un’area di un milione di metri quadrati, di cui 300.000 coperti, con un’occupazione inizialmente prevista di 22.000 operai (che superarono i 60.000 negli anni Settanta) nei reparti fonderia, stampaggio, meccanica e carrozzeria.

La Mirafiori, come la chiamava l’Avvocato Gianni Agnelli, è stata l’“icona” del boom economico che ha fatto dell’Italia un paese industriale, con la trasformazione di migliaia di contadini (prima del nord e poi del sud) in operai della grande fabbrica.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta la Mirafiori è infatti una sorta di grande laboratorio della industrializzazione e della trasformazione sociale.

La concentrazione produttiva delle auto e la immigrazione ed urbanizzazione della forza lavoro furono indicatori della forza propulsiva che pervadeva in quegli anni Torino, ma furono anche le cause delle successive tensioni sociali che si rivelarono negli anni seguenti.

La Mirafiori come emblema dello sviluppo del paese era peraltro quanto si erano preposti il Senatore Giovanni Agnelli, nonno dell’Avvocato e presidente e fondatore della Fiat, e l’amministratore delegato, il Professore Vittorio Valletta, con la realizzazione di una fabbrica competitiva a livello internazionale, pronta a cogliere le opportunità di un mercato in espansione.

Sul modello degli stabilimenti americani, in particolare quello di River Rouge della Ford, la Mirafiori fu concepita in un’epoca in cui lo sviluppo industriale mondiale si fondava sulla “mass production” e sul mercato di massa, e quindi sulla necessità di avere gli impianti di dimensioni tali da massimizzare le economie di scale.

Lo stabilimento del Lingotto, costruito solo qualche anno prima, non poteva aumentare gli spazi produttivi perché sviluppato in modo verticale su più piani, mentre la Mirafiori si sviluppa orizzontalmente, con la possibilità quindi di ampliare i reparti e le linee di lavorazione a fronte degli incrementi produttivi.

La realizzazione del progetto fu peraltro contrastata da Mussolini e dal regime fascista che vedevano con preoccupazione la concentrazione di migliaia di lavoratori occupati in una grande fabbrica come potenziale fucina di oppositori sindacali e politici.

Previsione peraltro puntualmente realizzatasi il 15 maggio 1939, all’inaugurazione ufficiale dello stabilimento, quando Mussolini, infastidito dalla freddezza con cui gli operai presenti sul piazzale seguivano il suo discorso, abbandonò il palco a metà della cerimonia o il 5 marzo 1943 quando, per la prima volta, gli operai di Mirafiori scesero in sciopero, propagatosi presto nelle altre fabbriche del Nord, segnando l’inizio della fine del regime.

Con la ripresa produttiva post-bellica, alla crescita della Mirafiori negli anni Cinquanta e Sessanta corrisponde l’innalzamento degli standard di benessere degli italiani: cresce la produzione, si amplia la base occupazionale, aumenta la motorizzazione del Paese, offrendo agli italiani quel senso di libertà di movimento che non avevano mai avuto.

I cinegiornali dell’epoca ci tramandano le immagini delle code di auto dirette a Ostia Lido o Fregene da Roma la domenica mattina, o gli esodi agostani da Milano e Torino per raggiungere i paesi di origine dei lavoratori meridionali delle fabbriche del nord.

Sono gli anni in cui la Mirafiori viene identificata con i suoi prodotti, la “500” e la “600”, ma sono gli anni anche in cui la Fiat, con la sua scuola aziendale, compie la più intensa operazione formativa che l’industria italiana avesse mai tentato.

Migliaia e migliaia di giovani ricevono un addestramento ed una formazione professionale che va oltre la prestazione lavorativa, e si estende ai principi fondamentali dell’agire d’impresa e delle responsabilità che esso implica. (esperienza ripresa decenni dopo, anche se in misura e modalità diverse, da Sergio Marchionne con la “riconversione culturale” dello stabilimento di Pomigliano).

Questo fu il momento in cui la cultura industriale, che era sino allora appannaggio di una ristretta élite manageriale ed imprenditoriale, divenne patrimonio di un largo strato della popolazione aziendale, formata da quadri, tecnici ed anche operai.

A partire dall’“autunno caldo” del 1969, la Mirafiori, con oltre dieci milioni di ore di lavoro perse per sciopero, assume però per l’opinione pubblica una immagine totalmente differente, diventando il simbolo delle lotte sindacali e della conflittualità permanente.

Con la firma del contratto dei metalmeccanici dell’8 gennaio 1970 si chiude l’autunno caldo, ma non passerà una stagione contrattuale, sia nazionale che aziendale, che non sia pervasa alla Mirafiori da scioperi interni con cortei “spazzatutto”, sia per le officine che per gli uffici, con i capi costretti, a volte a calci nel sedere, a sfilare in prima fila sventolando le bandiere del sindacato, o da picchettaggi “di persuasione” agli ingressi sin dalle prime luci dell’alba nel caso degli scioperi dell’intera giornata. E poi, per premere sulla chiusura della vertenza contrattuale, si arriva alla spallata finale con il blocco della Mirafiori anche per diversi giorni.

Mentre le lotte operaie si inasprivano e gli scioperi si moltiplicavano, prendeva inoltre sempre più piede un altro dramma, il più grave di tutti, il terrorismo brigatista, che fece della Mirafiori il bersaglio preferito: furono più di quaranta i suoi quadri e capi gambizzati in quegli anni dalla colonna brigatista di Mirafiori.

Fu nell’ottobre del 1980 che la Mirafiori assurse a simbolo della più “irreparabile” sconfitta operaia, non solo in Fiat ma nel Paese, da cui il sindacato antagonista non si è più ripreso.

Dopo più di un mese di blocco sindacale dello stabilimento per contrastare il provvedimento aziendale di cassa integrazione guadagni straordinaria, il 14 ottobre un corteo silenzioso per le vie centrali di Torino di migliaia di lavoratori Fiat che volevano tornare al lavoro (passato alla storia come la “marcia dei quarantamila”) fu l’elemento risolutore del conflitto.

Con la “gloriosa” sconfitta del sindacato conflittuale, si ristabiliscono le regole del vivere civile e acquisisce sempre più consenso, nel corso degli anni, il sindacato riformista e partecipativo sino ad arrivare al 15 gennaio 2011, quando i lavoratori della Mirafiori si esprimono a maggioranza referendaria per il piano di Sergio Marchionne di uscita dalla Confindustria e di applicazione del nuovo Contratto di Lavoro Fiat.

Sul piano industriale la Mirafiori aveva peraltro perso da tempo il suo ruolo di “centralità produttiva” del sistema Fiat.

Con lo sviluppo al sud degli stabilimenti di Cassino, Pomigliano e Melfi, e in Polonia di Tichy, la produzione delle vetture della Mirafiori scende dal milione annuo della fine degli anni Sessanta alle seicentomila per anno degli anni Ottanta, per arrivare a circa duecentomila all’inizio degli anni duemila. Alla decrescita dei volumi produttivi corrisponde proporzionalmente il calo degli operai che da sessantamila del 1980 si riducono solo ad alcune migliaia.

Sarà nel 2010 che Sergio Marchionne, per rilanciare e consolidare la Mirafiori, rivoluzionerà l’assetto produttivo dello stabilimento da “generalista” in cui si producevano ormai vetture di fine serie e sempre più in calo (come Idea, Lancia Musa, Multipla, Alfa 166 o Lancia Thesis) a produttore esclusivo di vetture di gamma alta come le Maserati.

Oggi quella che è stata la più grande fabbrica d’Italia, un vero e proprio simbolo dell’industrialismo, ha raccolto la sua nuova sfida: quella in cui ricerca, innovazione e competenze danno supporto alla mobilità del futuro, a partire dalle vetture che saranno prodotte proprio alla Mirafiori, la 500 elettrica e le Maserati elettriche, non trascurando gli eventuali apporti sulla guida autonoma derivanti dalla annunciata fusione FCA e PSA.

Related Post
Categories: Lavoro