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Ferrovie in Borsa modello Eni, lo Stato deve restare con una quota. La ricetta di Franco Bernabè

Franco Bernabè

Il governo ha ripreso in considerazione la privatizzazione di Ferrovie, Poste, Mps per citare alcune delle più importante società pubbliche nel pacchetto. È dalla quotazione e vendita degli ultimi tesori di Stato che si cercano i fondi per 20 miliardi previsti nei prossimi tre anni nella Nadef. Uno dei primi obbiettivi è di aprire in tempi brevi ai privati il capitale di FS, ultima società di cui lo Stato possiede ancora il 100%. L’apertura del capitale del Gruppo non si limiterebbe solo alle parti redditizie, come Trenitalia e in particolare l’Alta Velocità, ma includerebbe l’intera holding, comprensiva di Rfi, che gestisce la rete ferroviaria, e Anas, responsabile della rete stradale.

Franco Bernabè, che esattamente 30 anni fa aveva portato in Borsa l’Eni, ritiene che l’unica strada possibile per Ferrovie sarebbe proprio quella già utilizzata per il Cane a sei zampe, il modello Eni.“Leggo che si ricomincia a parlare della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato, l’unica che per dimensioni potrebbe portare un beneficio consistente ai conti pubblici” dice il manager a Repubblica. “Ma ho notato anche che, come già successo nel 2015, è subito partito un dibattito sull’oggetto della quotazione, su possibili scorpori della società della rete a via dicendo. Con la politica che ovviamente vuole dire la sua. A mio parere dovrebbero invece seguire il modello Eni, che a 30 anni di distanza si è dimostrato l’unico vero successo in tema di privatizzazioni”.

Privatizzazione FS: una quota allo Stato e management interno

Per l’Eni l’idea era che lo Stato mantenesse una partecipazione importante nella società, ma con una governance in linea con gli standard del mercato per poter attirare investitori istituzionali. E con una grande attenzione alla scelta del management”, dice Bernabè.

Per società della dimensione di Eni, Enel e anche di Ferrovie, serve avere stabilità per lavorare sul lungo periodo, dice il manager, “non possono essere esposte a continue sollecitazioni dall’esterno. Solo lo Stato può assicurare la necessaria stabilità, rimanendo nel capitale con una quota di minoranza, ma significativa e deve restare nel capitale Fs come ha già fatto con Eni, Enel, Snam e Terna. Del resto “Se ai possessori di azioni stabili si offrono voti multipli in fase di quotazione sarebbero sufficienti quote anche piuttosto basse”.

Con la quotazione in Borsa la società deve dotarsi di una governance all’altezza degli standard di società simili internazionali e che permetta di tenere fuori la politica dalla gestione”. La chiave del successo, dice ancora Bernabè, risiede nel fatto che il management cui si chiede di predisporre e portare avanti il piano deve avere solide radici interne alla società. Solo chi è in azienda da diversi anni, o si è formato lì, conosce bene i passi che dovrebbero essere compiuti dopo quelli già fatti negli ultimi 15 anni. D’altronde l’Eni di oggi funziona bene anche perché c’è un capoazienda, Claudio Descalzi, che lavora nella società da quarant’anni”.

Bernabè: pensare a degli scorpori ora, farebbe perdere anni preziosi

Per Bernabè, procedere a degli scorpori, come si sta pensando per la rete di Rfi rispetto al resto di Fs, in questo momento significherebbe perdere almeno due anni di tempo. Meglio quindi “affidare al management un piano di riorganizzazione, di dismissioni ed efficientamento e procedere quotando tutta la società nel suo complesso”.

Il modello Eni anni ’90: dalla bufera Enimont, alla ristrutturazione, alla Borsa

L’Eni veniva dal caos Enimont e nel 1991 e 1992 aveva registrato perdite molto significative, racconta Bernabè. L’era delle partecipazioni statali era giunta al capolinea e la politica voleva smantellare tutto, l’Iri, l’Efim e anche l’Eni. “Per fortuna Giuliano Amato prima e Mario Draghi, che era alla direzione generale del Tesoro, poi, ci assicurarono tre anni di continuità per preparare la società alla Borsa. Eni era una conglomerata a capo di un coacervo di 500 società che facevano di tutto. Con il management che guidavo, ricorda il manager, avviammo un piano di riorganizzazione enorme, che ha portato a chiudere un centinaio di società e a venderne altre 125 per un incasso di 5500 miliardi di lire. Abbiamo ristrutturato la chimica. Un’operazione colossale che ha permesso di salvare l’Eni dall’assalto della politica che voleva smantellarlo e che non ha mai creduto nel progetto di quotazione. Se oggi il Paese si può vantare di avere un colosso del gas e del petrolio è grazie al lavoro fatto in quel periodo”.

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