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Ferrarotti attacca: “L’Italia è rimasta ai tempi di Andreotti: il potere non decide ma tira solo a campare e Meloni galleggia”

Imagoeconomica

Franco Ferrarotti, il padre della sociologia in Italia, ha compiuto 97 anni il 7 aprile e chiunque vorrebbe arrivare alla sua età con la sua lucidità e con la sua vitalità fisica. Ma anche con la sua inesauribile capacità di indignarsi quando l’Italia getta al vento la sua possibilità di riformarsi e di rinnovarsi. Di questo furore critico e di questa grande passione civile sono ricche le pagine del suo recente pamphlet “Il potere inerte e la democrazia acèfala” pubblicato dall’editore Solfanelli ma trovano espressione anche in questa nuova intervista, concessa a FIRSTonline alla vigilia del suo compleanno. “Il potere più oppressivo – spiega – può essere il potere inerte, il potere che non decide, che rinvia sine die, che vuole solo durare e che tira a campare come ai tempi di Giulio Andreotti, ma che non affronta e non risolve mai i problemi dei cittadini”. E purtroppo “il fallimento della classe dirigente al potere in Italia è completato, e si potrebbe dire perfezionato, dall’inesistenza di un’opposizione efficace”. Ecco l’intervista di Franco Ferrarotti.

Professor Ferrarotti, siamo a Pasqua ed è da oltre un anno che alle porte dell’Europa infuria la guerra in Ucraina dopo l’aggressione del febbraio 2022 della Russia, ma non si vede nessun spiraglio di tregua e meno che mai di pace, mentre, nel mondo, avanzano i progetti imperiali delle autocrazie non solo della Russia ma della Cina, dell’Iran e della Turchia e l’Occidente appare sulla difensiva. Siamo proprio sicuri che alla fine la forza della democrazia prevarrà sull’autocrazia e che non saranno le logiche imperiali a modellare il nuovo ordine internazionale?

“Vincerà o no la democrazia? Per ora non c’è una risposta certa, ma di sicuro la democrazia intesa da molti politologi come pura procedura e come semplice conto delle teste, in una concezione accentuata in Italia dagli studi di Norberto Bobbio e Giovanni Sartori, sta pagando un prezzo molto alto se si dimenticano i contenuti ideali e politici di giustizia, uguaglianza e libertà che erano all’origine della democrazia moderna. Se si intende la democrazia solo come procedura, si arriva al paradosso di una classe governante ineccepibile dal punto di vista formale ma sostanzialmente distaccata dalla popolazione e si arriva a una rappresentanza che non è più rappresentativa e che scade a pura rappresentazione, a chiacchiericcio, a puro personalismo, e in definitiva a una politica molto piccola. Viceversa, le autocrazie appaiono più dotate di contenuti che fanno presa sul popolo. Il caso di Putin che dice di voler combattere per la denazificazione dell’Ucraina e contro l’asse Usa-Giappone è emblematico e dà ragione a quanto, tanti anni fa, sosteneva Ignazio Silone nel suo bellissimo libro “La scuola dei dittatori” secondo cui il nuovo fascismo e i regimi imperiali che negano la libertà rischiano paradossalmente di vincere in nome della democrazia”.

Sul Corriere della Sera il politologo Angelo Panebianco invitava qualche giorno fa a prendere atto che l’illusione cullata dall’Occidente secondo cui l’interdipendenza economica avrebbe spinto le dittature a sostituire l’autocrazia con la democrazia si è purtroppo rivelata fallace: perché non basta l’interdipendenza economica a fare la democrazia?

“Non basta perché l’innovazione tecnologica, che sta alla base dell’interdipendenza economica, è vissuta come principio guida della democrazia senza capire che essa è sì un valore ma non ci porta da nessuna parte perché non ha uno scopo e non ci dice da dove veniamo e dove andiamo. La tecnica funziona ma chi pensa è l’uomo. Internet è una meraviglia dei nostri tempi ma è stupido perché non dubita”.

Il cuore dell’Europa, rappresentato dalla Germania, dalla Francia e dall’Italia, non è mai stato così debole e in almeno due di quei tre Paesi si è bruscamente risvegliata la piazza che sta mettendo a dura prova i Governi e le istituzioni democratiche: la Germania non ha ancora trovato un equilibrio per il dopo Merkel e il 27 marzo ha vissuto lo sciopero per i salari più imponente degli ultimi trent’anni e la Francia ha già vissuto 11 scioperi contro la riforma delle pensioni mentre l’Italia non è né carne né pesce e conta sempre meno sul piano internazionale. C’è un filo rosso che unisce le debolezze delle tre maggiori democrazie europee?

“Il filo rosso è costituito da classi dirigenti che purtroppo non sono all’altezza e non sono in grado di risolvere i problemi dell’umanità. Il potere reale di chi governa diventa così appannaggio personale ma non risponde ai bisogni della gente. A sua volta la piazza è importantissima, ma non può essere un soggetto politico. In realtà nelle manifestazioni di piazza che stiamo vedendo in questi giorni c’è l’onda lunga del ’68 che pensava che l’autenticità fosse data dalla pura spontaneità e che governare significasse solo fare propaganda e lanciare parole d’ordine”.

La crisi della Francia è forse il caso che più colpisce in Europa e desta stupore il divorzio sentimentale tra Macron e la popolazione a fronte di una riforma delle pensioni che appare ragionevole per mettere in sicurezza il sistema previdenziale e che l’Italia ha già fatto con il sostegno dei sindacati: che cosa ne pensa e qual è, secondo lei, la vera origine della crisi francese?

“Da Turgot a Colbert in poi in Francia c’è sempre stata una tradizione di tecnicizzazione del potere. Ma la pura tecnica non basta se manca la sintonia con il popolo. La Francia è il Paese di Cartesio, della Rivoluzione de 1789 e dell’Enciclopedia di Diderot e sa che per agire bisogna conoscere. Da questo punto di vita il Presidente Macron ha il merito di mettere a nudo i limiti di conoscenza di Le Pen ma sembra non avere le antenne del sentire medio della popolazione. Senza la capacità di ascoltare la razionalità non basta, come aveva capito benissimo il Presidente Mitterand. Non per caso in Germania la Merkel ha potuto governare tanto perché sapeva captare il mood del popolo tedesco. Al contrario, in Francia se Macron e i sindacati non ritroveranno la via del dialogo il rischio è quello di aprire la strada alla vittoria della destra reazionaria della Le Pen”.

E la Germania di oggi come la vede? Da dove nasce il suo malessere?

“Nasce dalla mancanza di veri leader del livello di Willy Brandt o di Helmut Schmidt che hanno saputo fare i conti con il nazismo e con il comunismo e che hanno avuto la forza di promuovere la svolta di Bad Godesberg da cui è nata la moderna socialdemocrazia. Tutto il contrario dell’Italia, che non ha saputo fare i conti con il proprio passato come emerge chiaramente dai passi falsi in cui spesso cade il Governo Meloni. Siamo di fronte a un potere inerte e a un potere che non sembra interessato ad affrontare e a risolvere i problemi della popolazione ma soltanto a tirare a campare e a durare. Salvo rare parentesi, per l’Italia l’andreottismo del potere fine a se stesso sembra non finire mai. Ma così contiamo sempre meno in Europa e sul piano internazionale rischiamo di dare ragione al Metternich quando sosteneva che l’Italia è solo un’espressione geografica, un Paese che rinuncia a esercitare il ruolo che meriterebbe per la creatività del lavoro e il dinamismo delle nostre piccole e medie imprese”.

Finora però i presagi più foschi per l’Italia non si sono avverati: l’economia tiene, la Meloni è prigioniera dei suoi fantasmi del passato e di una compagnia di governo per lo più mediocre ma non si può dire che ci sia sentore di fascismo, il sostegno all’Ucraina è netto e sull’economia il Governo cerca di seguire le orme di Draghi anche se nelle grandi decisioni europee contiamo sempre meno. Professor Ferrarotti, qual è il suo giudizio sul Governo Meloni e sullo stato della democrazia italiana oggi?

“È un Governo che galleggia e che non ha ancora ben capito che governare non è fare della semplice propaganda e del movimentismo parolaio ma è azione per risolvere i problemi del Paese. Finora si è dimostrato un potere inerte e fine a se stesso che rinuncia a decidere pur di durare. È la testimonianza dell’inutilità delle attuali classi dirigenti”.

Non le sembra che la regressione italiana sia culturale ancora prima che politica? Il sovranismo alimentare e il rifiuto della carne sintetica come l’argine contro le nuove piattaforme dell’Intelligenza artificiale non svelano un Paese terribilmente provinciale e molta nostalgia per l’Italietta?

“Purtroppo, come dicevo prima, il nostro Paese non ha mai fatto i conti fino in fondo con il proprio passato e vive di illusioni nostalgiche pensando che proiettando il passato nel futuro si arrivi in Paradiso. Ma è solo una fuga dalla realtà”.

E sulla sinistra italiana stendiamo un velo pietoso?

“Dal 1921 in poi la sinistra è dominata dalla misteriosa vocazione all’autodistruzione che spesso si unisce al virus del massimalismo e del velleitarismo. Se non si libera da questi mali sarà difficile contrastare la destra e far vincere un progetto politico che torni a basarsi sulla giustizia e sulla libertà. Ma la speranza è l’ultima a morire”

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