Senza tema di esagerare, non si va lontani dalla realtà se si afferma che la grande tradizione dolciaria di Palermo, ma un po’ di tutta la Sicilia, nasce …benedetta da Dio, E si, perché i dolci più tradizionali tramandati fino ai tempi nostri, dalle martorane ai biscotti ricci, dal trionfo di gola al cous cous al pistacchio sono nati tutti nel silenzio delle cucine dei conventi monacali, spesso di clausura. Si pregava Dio, e si impastavano creme, ricotta, zucchero, miele, frutta candita, mandorle.
La antica tradizione pasticciera dei conventi palermitani: nel 1700 se ne contavano 21 in città
Basti pensare che solo a Palermo nel 1700 furono censisti 21 laboratori dolciari conventuali, ma la tradizione risale a secoli addietro. “All’inizio produrre dolci era un modo per sdebitarsi” spiega Maria Oliveri, autrice di un volumetto illustrato “I segreti del Chiostro” che affronta storicamente e antropologicamente la tradizione dolciaria conventuale siciliana. “Il libro – spiega – è nato dal proposito di mettere per iscritto storie e piccole curiosità dei monasteri femminili di Palermo e al contempo per cercare di focalizzare l’attenzione su una sapienza gastronomica maturata in ottocento anni di storia conventuale in Sicilia, un’importante eredità spirituale e materiale che non può andare perduta, ma che deve essere valorizzata e tramandata alle generazioni future”.
Ma perché questa attività si sviluppò nei conventi? Perché con le ricche dotazioni delle grandi famiglie nobili che applicavano la regola del maggiorato i conventi potevano consentirsi di approvvigionarsi di costose materie prime, negate alle povere genti, con cui tenere occupate le giovani conventuali impegnate nei lavori artigianali più vari, tra cui anche la pasticceria.
I dolci delle monache di clausura come contatto con le famiglie d’origine, per non sentirsi dimenticate
Per la maggior parte delle recluse – non tutte erano di nobile famiglia – era anche un modo di realizzarsi nonostante la costrizione, per mantenere un collegamento con le famiglie d’origine alle quali mandavano in dono i loro dolcetti, lasciando una traccia di loro stesse al di fuori del convento. Condizione disperata magistralmente descritta dal giovane Giovanni Verga in “Storia di una capinera”, la commovente vicenda di Maria costretta a farsi suora a causa della povertà della sua famiglia, che non può permettersi di pagare la dote per farla sposare né di mantenerla. Col tempo però – spiega Maria Oliveri – l’attività divenne un modo per avere ricavi economici. Ancora prima della guerra però solo le famiglie abbienti potevano acquistarli, perché il prezzo era piuttosto alto visto l’impiego di materie prime costose, come lo zucchero. La maggior parte dei prodotti stagionali, invece, arrivavano dai fondi portati in dote dalle ragazze che prendevano i voti”. In Sicilia, nello specifico, questa attività artigianale si carica di valori culturali, ereditando ricette, gusti e tecniche di pasticceria dai popoli che si sono avvicendati sull’isola, dagli Arabi passando per i Normanni.
Dalla storia dell’antico monastero fondato nel 1171 da Matteo d’Ajello, Gran Cancelliere della Sicilia (ossia primo ministro sotto il governo dei sovrani normanni Guglielmo I e Guglielmo II). che sorgeva in via Celso, oggi scomparso, proviene un dolce irriverente per un convento monacale: le Fedde del cancelliere (Fedde di lu Cancidderi) che ha rischiato l’estinzione. Partiamo dal nome licenzioso: fedde in dialetto siciliano significa natiche. Evidentemente il cancelliere Matteo d’Ajello abituato ad abbondanti libagioni aveva sviluppato particolari rotondità nelle parti basse posteriori… ma col tempo, per evitare risentimenti il dolce prese le forme di una conchiglia bombata.
Si tratta di un guscio di morbida pasta di mandorle che nasconde un ripieno di crema biancomangiare e confettura di albicocche.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo sulle fedde: “A solo pronunciare i loro nomi si commetteva peccato “.
Le fedde erano ritenute dai palermitani squisite ghiottonerie, superiori per bontà a tutti gli altri dolci. L’abate Meli infatti esclamava: “Chi cannola, cassate o cassateddi!. Pi quattro fedde di lu Cancidderi/ farria sett’anni cu remi in manu!” (Ma quali cannoli, cassate o cassatelle! Per quattro fette del Cancelliere/ farei sette anni con i remi in mano ai lavori forzati!”). Anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, parlando di questi dolci, dice ironicamente che avrebbero dovuto vietarli “perché a solo pronunciare i loro nomi si commetteva peccato “.
La forma attuale del dolce è quella che aveva già assunto nell’Ottocento, ovvero quello di una conchiglia bivalve. Provocava una certa ilarità tra gli abitanti della città l’idea che a manipolare dolcetti appetitosi a forma di glutei maschili fossero proprio le pie monachelle…
Secondo altri studiosi, le fedde erano simili al “prucitanu”, biscotto ormai desueto a forma di sesso femminile, prodotto un tempo a Comiso, in provincia di Ragusa e regalato dalla sposa allo sposo in segno di buon augurio.
La tradizione mantenuta in vita nel monastero di Santa Caterina
Si diceva come questo originale ma gustosissimo dolce avesse rischiato l’estinzione. Scriveva Antonino Uccello nel 1981: “Per eccessiva elaborazione alcuni dolci quali le fedde del Cancelliere e le paste delle Vergini risultano antieconomici e non vengono più confezionati”. Fortunatamente oggi le si può trovare nella dolceria dell’imponente monastero di Santa Caterina, in pieno centro a Palermo. Fondato nel 1312 da Benvenuta e Palma Mastrangelo, figlia e moglie di Ruggero, capitano di Palermo all’indomani del Vespro siciliano del 1282 l’edificio era stato destinato in principio alle semplici donne meretrici, poi si trasformò in uno dei monasteri nobiliari e di clausura più ricchi e importanti del territorio palermitano per poi cadere in abbandono nel ‘900 restando attivo fino al 2014 quando le poche suore rimaste dell’ordine dominicano dovettero trasferirsi peer morivi di sicurezza.
Da un ingresso laterale all’entrata della antica chiesa si accede a “I segreti del Chiostro” un locale che grazie ad un progetto cooperativo portato avanti da Maria Oliveri e da Maria Carmela Ligotti propone in vendita dolci conventuali siciliani, il cui ricavato va al restauro del monastero.