La fine delle vacanze ha confermato che questa ripresa sarà lenta e lontana dall’avere una forma “V” che alcuni (Trump in testa) auspicavano.
Anche se è vero che, come si diceva nella Lancette scorse, il nadir della recessione è passato, la strada davanti è da percorrere un passo alla volta, con gli occhi rivolti alle cifre del Covid-19.
Un po’ in tutti i Paesi il tasso di risparmio delle famiglie è aumentato di molto. Il che vuol dire che Governi e Banche centrali hanno meritoriamente difeso i portafogli svuotati dalla crisi, ma la gente non spende. C’è, insomma, una domanda potenziale che però, per divenire effettiva, avrebbe bisogno di maggiori certezze rispetto a quelle offerte dal virus.
Gli allentamenti, dalle spiagge affollate ai ragazzi (e non solo) in discoteca, hanno spinto una seconda ondata di infezioni. Il focolaio sta rientrando in Giappone e Corea del Sud, da bassi livelli, e in USA, da livelli molto alti e complice la diminuzione dei test. Continua, invece, a fiammeggiare sinistro in Europa, e specialmente in Francia e Spagna, con molte migliaia di nuovi casi giornalieri e un tasso di positività molto elevato.
Anche nel Regno Unito si nota una recente accelerazione (tanto che, se il loro parametro sulla quarantena degli arrivi internazionali fosse applicato all’interno, tutti i residenti dovrebbero stare rintanati in casa!), ma è per l’aumento dei tamponi, che risultano positivi per meno dell’1%. I famosi quattro Paesi “frugali” hanno visto infezioni più che raddoppiate in estate, segno che dovrebbero spendere di più (nel controllo del virus…). In Italia, Germania e Grecia i nuovi casi, pur preoccupanti, sono meno che altrove.
Queste “Lancette del virus” si riflettonosu quelle della congiuntura, dato che è dalla voglia di spendere – a sua volta in presa diretta con gli sviluppi della pandemia – che dipende la domanda aggregata. Fortunatamente, la “voglia di spendere” è viva e vivace nel settore pubblico.
I Governi spendono e spandono, paradossalmente incitati dalle Banche centrali, che sanno di non potere da sole contrastare gli urti della crisi. La FED – da sempre conscia del suo “mandato duale” (bassa inflazione e alta occupazione) – ha lastricato di buone intenzioni le sue politiche a venire: primo, il tasso di inflazione potrà andare sopra il 2% se è stato prima a lungo sotto; e la “massima” occupazione da perseguire deve essere il più possibile “inclusiva”, nel senso di beneficiare le fasce più disagiate. Cosicché aiuta il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità globali.
L’inflazione, che dava il mese scorso segni di risveglio, non li ha confermati e rimane un morto che cammina. La dinamica dei prezzi alla produzione è sotto zero (anche se un po’ meno “sotto”) e i prezzi al consumo rallentano in Europa e in Cina. Le materie prime e il petrolio, i cui prezzi erano risaliti il mese scorso, non hanno continuato lo slancio. Insomma, l’inflazione non è più un problema (almeno nel senso di alta inflazione), né per oggi né per il futuro prevedibile.
I tassi a lunga non sono molto variati rispetto al mese scorso. Lo spread del BTp si mantiene intorno a quota 150, mentre il livello del rendimento, che è quel che conta, è intorno all’1%. La quota del debito pubblico italiano in mano al mercato sarà, l’anno prossimo, all’incirca eguale a quello che era nel pre-virus, segno che il grosso dell’indebitamento addizionale sta nelle tasche profonde della Banca centrale. Un debito, questo, che non sarà mai rimborsato e che non costerà quasi nulla. La bassa inflazione, però, mantiene (troppo) alti i tassi reali, e in molti casi li sta appesantendo. Eleviamo una fervida preghiera: più inflazione, please!
I tassi reali del Bund, complice la discesa dell’inflazione in Germania, si sono portati sopra quelli del T-Bond, confermando una delle ragioni della debolezza del dollaro: il biglietto verde si mantiene fra 1,18 e 1,19 contro euro ma tenderà ad andare verso 1,20 e oltre; e scende ancora contro lo yuan. La moneta cinese svetta a quota 6,83, il livello più forte da un anno e mezzo a questa parte.
C’è chi pensa che la nuova strategia della Fed (vedi sopra) sia volta a indebolire il dollaro. Ma, nella misura in cui l’indebolimento si verificasse, si tratterebbe di una conseguenza, non certo di un primum movens della nuova impostazione. Powell è stato molto chiaro sulle ragioni del cambio di strategia e né direttamente né indirettamente ha menzionato la competitività.
Nei mercati finanziari si è avuta una correzione, già presagita dalle Lancette. Così come quotazioni azionarie e quotazioni dell’oro si erano mosse all’unisono verso l’alto, ora si stanno indebolendo con altrettanta comunanza di intenti. Il tempo dirà se questa correzione ha esaurito il suo corso. Come già detto in passato, i rapporti p/e sono molto alti dappertutto, anche dopo questo (piccolo) ritracciamento. In particolare, per lo S&P500, il p/e è a quota 26; ma l’aumento dell’indice è concentrato nelle cinque maggiori società tecnologiche, senza le quali (cioè se il p/e fosse calcolato dando lo stesso peso a tutte le società dell’indice) detto p/e sarebbe intorno a quota 50, calcolato sui miseri utili correnti.
Finora, va riconosciuto, l’andamento delle quotazioni delle “fabulous five” ha correttamente anticipato la crescita futura dei loro utili. Ma del doman non v’è certezza.