Il commiato del Governatore della BCE Mario Draghi è stato come sempre misurato e la sua eredità non è legata certamente solo alla solidità ed al ritrovato consenso per l’euro, ma ad un passaggio di testimone non scevro di incognite a Christine Lagarde. Dal 1° novembre il quantitative easing proseguirà con 20 miliardi di euro al mese, (un quarto dell’ammontare della precedente fase), un tasso di deposit facility portato a -0,50% ed una possibile revisione delle cosiddette capital keys, ovvero il vincolo per ogni emittente, legato alla quota di azionariato alla BCE, ed attualmente fissato al 33% per singola emissione pubblica.
Compito decisamente più arduo è quello di Jerome Powell, governatore della Fed. La disperata ricerca delle parole più giuste da parte del governatore della Banca Centrale americana non è mai cosa semplice, non solo perché Powell non ha doti di gran comunicatore ma per il delicato momento che sta vivendo ormai da un mese a questa parte il mercato monetario statunitense. E anche cercare di evitare di pronunciare l’ossimoro “mini QE” pare un’impresa, quindi tanto vale ammettere che la Fed è costretta ad allargare ulteriormente le maglie del bilancio reiterando gli interventi.
FED SUGLI SCUDI: LIQUIDITA’ COME SE PIOVESSE
Ma facciamo un passo indietro perché il quantitative easing USA dal 2009 al 2015 ha visto un rafforzamento del bilancio da 870 miliardi di dollari usa a 4,5 trilioni di dollari usa, mentre dal 2015 allo scorso settembre la riduzione si era fermata a 3,8 trilioni di dollari Usa.
Queste fasi alternanti nella liquidità della Banca Centrale hanno trovato perfetta corrispondenza in un eccesso di riserve da parte delle banche ben aldilà delle loro necessità.
La preferenza per le fasi di espansione del bilancio è evidente quindi perché le banche Usa vedono renunerato l’eccesso di riserve nella fascia alta del range dei tassi correnti ed al contempo ottimizzano agevolmente le coperture sui prestiti a breve termine secondo la normativa Basilea 3.
Allo stesso tempo però viene meno l’incentivo a partecipare attivamente al mercato repo e soprattutto la parte di mercato interbancario non collateralizzato viene abbandonata a se stessa. Tanto che la liquidità sul mercato repo da parte delle banche si è dimezzata scendendo da 4,3 trilioni a circa 2,2 trilioni di dollari Usa attuali, mentre la partecipazioni di società finanziarie, broker, ed hedge funds è aumentata esponenzialmente a finanziare la crescita di portafogli sovrappesati sulle emissioni corporates. Ed è evidente che gonfiare le esposizioni di portafogli con un merito di credito più rischioso potrebbe per molti essere interpretato come sfiorare il moral hazard.
Ma facciamo un secondo un passo indietro perché a metà settembre per molteplici fattori la liquidità ha iniziato a scarseggiare anche per il sommarsi di scadenze fiscali delle corporates e per recenti acquisti sul mercato dei bond da parte delle stesse banche. L’intensificarsi dell’attività sul mercato repo ha visto una concentrazione di elargizioni verso JP Morgan e Citibank da parte della Fed di NY in cambio di Treasuries e obbligazioni di rating elevato, e queste a loro volta impegnate a distribuire verso le altre banche la liquidità dominando le attività degli attori bancari ma anche erogando verso gli hedge funds.
Non basta, nella seconda settimana di ottobre la Fed ha avviato le prime operazioni di riacquisto dei BOT americani, i TBill, per oltre 7,5 miliardi di dollari Usa a fronte di un offerta di circa 32 miliardi, di fatto operando una nuova e ingente espansione del bilancio della banca centrale. Questa settimana l’iniezione di liquidità ha toccato i 75 miliardi di dollari usa riportando il bilancio a superare la soglia di bilancio dei 4 trilioni di dollari .
È ovvio che anche se tecnicamente non si possa onfigurare come un nuovo quantitative easing, l’effetto sia del tutto simile. Ed il dubbio che circola tra gli operatori è che un’altra fase di QE non risolverà il problema perché come spiegato se la liquidità non si trasferisce pienamente sul mercato repo questo resterebbe dominato dagli attori non bancari venendo meno un effetto di trasferimento del quale a valle i beneficiari dovrebbero essere i correntisti sui quali pervengono le disponibilità creditizie dagli stessi istituti bancari .
Di fatto ci si trova di fronte ad un vero e proprio conflitto di interessi per la Fed che ben presto potrà replicarsi anche se con dinamiche differenti per la Bce perché la stabilità del sistema finanziario è di fatto il fine ultimo di entrambe. Il ruolo di ente regolatore si fonde con quello di organismo di politica monetaria e come si comprende le dinamiche post crisi 2008 son ben diverse, tanto che il Peterson Institute propende per un ‘ulteriore espansione del bilancio di 250 miliardi di dollari Usa per i prossimi 6 mesi nonché per delle “repo facility” che permettano una gestione flessibile del concambio in cash dei Treasuries in possesso delle banche stesse”.
Così Christine Lagarde potrà trarre da questa esperienza di oltreoceano qualche indicazione importante di fronte ad una Fed decisamente più flessibile in un mercato più controllato e attentamente gestito e normato, soprattutto perché ora la priorità è legata a sconfiggere il rischio di recessione convincendo i Paesi dell’UE, come già tentato più volte da Mario Draghi, ad implementare politiche fiscali volte a sostenere la domanda domestica.
Le Banche Centrali son diventate creditori di ultima istanza assumendo un ruolo catalizzatore che le vede ora impegnate nel cercare di evitare distorsioni nella percezione della soglia di rischio nei sistemi economici evoluti, che le politiche non convenzionali, (anche attraverso il quantitative easing ed il perdurare della fase di tassi negativi), hanno alimentato negli operatori . E le parole di Mustier, ad di Unicredit, sul trasferimento dei tassi negativi a spese dei correntisti rappresentano il primo banco di prova per la Governatrice della BCE appena insediatasi.
Occhi puntati per adesso verso la Fed quindi data l’elevata probabilità di un taglio dei tassi di 25 bp nel meeting del 30 ottobre, mentre l’ultimo incontro dell’anno fissato per l’11 Dicembre risulta sicuramente il più delicato, da un punto di vista politico, anche alla luce delle possibili valutazioni sugli effetti dell’accordo valutario con la Cina che diminuendo la volatilità dello yuan permetterebbe altresì una stabilizzazione del dollaro Usa in questa fase accesa di bagarre elettorale che non mancherà di riservare colpi bassi e di trasferire sui mercati finanziari nervosismo e volatilità, come se già non bastassero le questioni geopolitiche.