Negli ultimi decenni nel mondo della moda sono comparse costellazioni di termini per indicarne le più svariate innovazioni, le tendenze. Si è parlato di circular fashion, di fast fashion e del suo opposto, la slow fashion. Eco-friendly, ethical fashion sono tutti sinonimi di una moda nuova, di una moda sostenibile. Termine, questo, forse perfino abusato: chi non parla di riciclare, di differenziare, di fare amicizia con l’ambiente? Ecco, l’universo del fashion è stato colpito da questa sensibilità da un po’ di tempo ormai, ma non da troppo. Alcuni report, infatti, sostengono che l’industria della moda sia tra le più inquinanti al mondo, complici gli sprigionamenti di gas serra e le microplastiche contenute nei tessuti costituiti da poliestere ed acrilico.
È vero quindi quello che viene detto nella Global Fashion Agenda, la più importante fonte di comunicazione sulla sostenibilità, quando si afferma che “il settore moda sta ancora migliorando in ambito di sostenibilità”. Abbiamo vissuto però, e continuiamo purtroppo a vivere, un periodo particolare, di transizione, di vera e propria rivoluzione. Sì, perché la rivoluzione si fa per le strade e con le voci, ma noi abbiamo imparato a farla in un modo diverso: a casa e in silenzio, con il distanziamento che ci imponeva la separazione e non il fare gruppo, come ogni rivoluzione prometterebbe. Con i nostri commenti sui social, sulle varie app, uniche modalità attraverso le quali è stato possibile continuare la nostra vita, dandoci una parvenza di normalità.
In questo contesto, in cui la tecnologia è stata per la prima volta l’unica nostra amica, sono nati nuovi trend. Trend che hanno dato una spinta in più anche al settore della moda, che è riuscito a sopravvivere di fronte a questa crisi inaspettata ed imprevedibile. Tra questi il più bizzarro, quello che ti spiazza, quello che ti fa buttare giù i tabù con i quali siamo abituati a convivere, è il fashion renting. In questo modo, la vera rivoluzione sostenibile sta prendendo piede, anche quando non se lo sarebbe aspettato nessuno.
Il fashion renting è una tendenza che si è sviluppata recentemente, ma che in realtà ha origini lontane. Per definizione, è quella pratica secondo la quale si offre l’opportunità ai consumatori di scambiarsi i prodotti senza necessità di comprarli. Ha origini antiche perché ricorda un po’ la vecchissima pratica del baratto: ti do una pecora in cambio di un vestito. Detta in termini moderni, si tratta di “noleggio di abiti” e offre grandi vantaggi: dal lato del consumatore, infatti, togliendo l’onere della proprietà, questi sarà più incline a rinnovare il proprio guardaroba più frequentemente e soprattutto senza costi. Dal lato business, invece, l’azienda potrà creare e stabilire una relazione più a lungo termine e soprattutto fedele con il proprio cliente che si tradurrà in una massimizzazione del profitto.
La pandemia ha quindi contribuito ad accelerare quella che l’olandese Edelkoort definisce come “quarantena del consumo”, in cui le nuove modalità di acquisizione dei capi di moda hanno cambiato il ritmo delle pratiche di consumo e degli stili di vita. Certo, alcuni quesiti sorgono spontanei: quanto è igienico noleggiare abiti precedentemente indossati da altri consumatori, senza poterne controllare con i propri occhi la pulizia? Come faccio a noleggiare un vestito senza prima poterlo misurare? O ancora, perché dovrei investire del denaro nell’affitto di un abito piuttosto che utilizzare direttamente la mia disponibilità economica per acquistarne il possesso? Ma si sa, come in ogni cosa nuova, senza rischio non c’è divertimento.
Di sicuro, la pratica del fashion renting non è adatta agli individui per cui determinati prodotti rappresentano degli status symbol. Molto spesso infatti si tende ad associare l’affitto di un capo (anche di lusso) a un basso status sociale e ad un ridotto potere d’acquisto. Al contrario, l’acquisto e la proprietà trasmettono un senso di sicurezza e di indipendenza all’acquirente.
I consumatori più inclini al fashion renting sono quelli che seguono con maggiore attenzione la moda del momento e puntano alla convenienza (non strettamente economica ma più che altro “temporale”, dato che i capi vengono utilizzati per brevi periodi di tempo). Affittare i capi permette di massimizzare il ritmo di ricambio degli abiti liberandosi dall’onere della proprietà e da ciò che ne consegue (pulizia, cura, smaltimento).
Allo stesso tempo, questo nuovo tipo di moda è positivo per l’ambiente e contribuisce ad accelerare non di poco la propensione dei consumatori verso prodotti green ed ecosostenibili. Al contrario, l’acquisto ripetuto di capi d’abbigliamento aggrava i danni prodotti dalla cultura dello scarto.
Il fashion renting perciò si inserisce in un quadro più ampio, che coinvolge una vera e propria teoria economica: la sharing economy. Questo modello rappresenta la massima espressione del termine condivisione, vuol dire desiderio di comunicare agli altri il rispetto dell’ambiente, volontà di scambiare con la propria cerchia di riferimento consigli e opinioni, informare ed informarsi.
Dal punto di vista del marketing, invece, il fashion renting potrebbe consentire alle maison di creare un nuovo storytelling che punti sui temi sostenibili e allo stesso tempo attiri anche i consumatori più legati a esperienze d’acquisto di tipo edonistico.
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Piacevole e interessante l’articolo qui proposto dalla rivista First. Curioso è vedere come questa pandemia abbia stimolato il desiderio di comunicare con gli altri in modo sostenibile attraverso lo scambio di capi d’abbigliamento!
Tema attuale che procede in parallelo con il boom del noleggio sostenibile di auto elettriche, condivido totalmente l’articolo, sottopongo le domande per un dibattito:
e gli accessori, gioielli, occhiali? Favorevoli al luxury rental watch?
Ringrazio FIRST per offrirci sempre nuovi spunti di riflessione su temi così importanti e così ben trattati.
Articolo interessante e molto ben scritto!! La prosa e scorrevole e gradevole. Apprezzabile l’accento posto sull’economia dello sharing!!