Le case d’aste ne hanno sempre aggiudicate a prezzi anche record, ma oltre ai grandi capolavori vi è un mercato di qualità media che arriva nelle case anche delle persone meno facoltose. Spesso si tratta però di oggetti da tenere in casa solo per un culto religioso. Ma se da un lato i fedeli ortodossi sono affezionati alle icone come oggetti di famiglia, dall’altro cresce sempre di più il numero dei non credenti che fanno oggetto di icone.
La parola “icona” deriva dal greco e significa “immagine” e si tratta solitamente di un dipinto su una tavola di legno raffigurante Cristo, un santo, una madonna, un angelo o qualsiasi altro soggetto sacro. Ma nessuno sa quando nacquero veramente.
Ma in commercio vi possiamo trovare di tutto, opere antichissime, recenti o anche non autentiche. Ciò perché in realtà esiste una richiesta molto forte, e a riguardo per un ortodosso vi è un credo “Ciò che distingue le vere icone dagli altri dipinti è la loro vita spirituale, che può esistere solo in un clima di fede”.
I fedeli della Chiesa Ortodossa Orientale, mantengono ancora oggi un atteggiamento di venerazione con queste immagini, che in Chiesa o in casa, baciano ogni giorno, vi accendono un cero e vi si inginocchiano davanti in preghiera. Per molti di loro il loro destino è in mani dell’icona che si tramanda anche da intere generazioni.
Il culto delle icone, sopravvive ancora oggi in Grecia come in Russia, da cui una leggenda russa dice che la prima immagine fu quella apparsa su un lembo di lino intriso d’acqua che Cristo si era passato in volto, imprimendo i suoi lineamenti. ma le icone cominciarono ad apparire nelle chiese dell’Impero d’Oriente fin dagli inizi del XV secolo. A seguito, nel XVIII secolo la Chiesa Bizantina, decretò che i soggetti da dipingere dovevano essere solo di genere spirituale, come Gesù Cristo o la Vergine Maria.
Ma chi le produceva? Erano artigiani falegnami, che tagliava il legno, meglio se di tiglio o cipresso. Poi per evitare le incurvature, lo fasciavano e fatto stagionare anche per sei anni. Poi interveniva uno specialista che vi stendeva sopra fino a 12 strati di una miscela fatta di alabastro e colla, chiamata “gesso” e levigando tutto con la pietra pomici per renderla perfettamente liscia e non porosa. Il compito successivo era quello del disegnatore che faceva lo schizzo dell’immagine che voleva rappresentare, e un doratore copriva la parte esterna con fogli di oro laminato, lucidandolo con un dente d’animale o un pezzo di agata. Tutto così luccicava perfettamente. Infine arrivava il momento del pittore, o iconografo, che usava non più di ben cinque colori, tutti ottenuti con pigmenti naturali che venivano legati con il rosso d’uovo e diluiti con il latte di fico o miele. L’iconografo doveva sottostare a regole ferree stabilite dalla Chiesa, ma era libero di disporre e colorare gli elementi come preferiva, al punto che mai due icone sarebbero state identiche.
L’arte iconografica, dopo il XVI secolo perse un po’ la sua importanza, questo anche perché la fuliggine e la sporcizia depositate dalle candele e dall’ incenso era penetrata anche dentro il colore, oscurando così l’immagine originale. Fortunatamente con la scoperta di solventi – secolo scorso – fu possibile recuperare molte di queste opere, anche se vi era dapprima il timore di asportare completamente o in parte il colore, ciò non successe e il risultato fu sorprendente. Già ai primi del Novecento, furono ritrovate e restaurate preziose icone, al punto tale che fu organizzata una grande mostra a Mosca. Era il 1913 e fu una vera febbre che contagiò collezionisti ma anche artisti, particolarmente colpiti dalla modernità di queste opere su legno. Uno dei maggiori maestri del periodo, Henri Matisse, rimase quasi folgorato dalla bellezza al punto da rievocarne la tecnica nella sua pittura.
Ma i grossi profitti che derivano dal commercio di queste immagini sacre, rappresentano anche un irresistibile invito alla falsificazione, perciò solo un grande esperto può dirci se un icona è davvero autentica.