Facebook torna nell’occhio del ciclone. A due mesi dallo scandalo Cambridge Analytica, una nuova bufera si abbatte sul social network più popolare del mondo. Al centro di tutto c’è ancora una volta il trattamento dei personali di milioni e milioni di utenti che, senza il consenso dei diretti interessati, sembrano essere diventati oggetto di condivisione e moneta di scambio tra colossi dell’Hi-tech.
“È stato un mio errore, ho sbagliato e mi dispiace”, aveva detto Mark Zuckerberg due mesi fa davanti al Congresso Usa, cercando di difendersi sulla presunta violazione della privacy effettuata da Cambridge Analytica. Ma nel caso in cui questa ennesima accusa venisse confermata, cercare di far passare quanto accaduto come “un’eccezione” e non come “la regola” diventerebbe un’impresa sempre più ardua.
FACEBOOK: LE NUOVE ACCUSE SUI DATI PERSONALI
Ma andiamo con ordine. A scoperchiare l’ennesimo vaso di pandora è il New York Times, che in un lungo e dettagliato articolo spiega come Facebook, nel corso degli ultimi dieci anni, avrebbe stipulato accordi con sessanta produttori di smartphone, tablet e dispositivi mobili tra cui Apple, Samsung, Microsoft, Amazon e BlackBerry. Al centro di queste intese ci sarebbe proprio la possibilità per questi ultimi di accedere ai dati personali degli utenti del social network e dei relativi amici senza aver ottenuto l’esplicito consenso degli interessati.
In base a quanto scritto dal Nyt, molte di queste intese sarebbero tuttora valide e grazie ad esse l’azienda di Mark Zuckerberg ha potuto estendere in maniera esponenziale i suoi margini d’azione mentre i produttori di dispositivi mobili sarebbero stati lasciati liberi di offrire e diffondere ai propri utenti alcuni dei servizi più popolari che caratterizzano il colosso dei social media.
La notizia diffusa dal quotidiano americano contrasterebbe con la “versione ufficiale” di Facebook, che nel corso degli ultimi mesi ha più volte spiegato di aver imposto una stretta sulla raccolta di dati personali a partire dal 2015. Questa “stretta”, secondo il Nyt, avrebbe avuto alcune eccezioni, tra le quali proprio i produttori di smartphone, tablet ed altri dispositivi hardware.
LA DIFESA DI FACEBOOK
Prima che l’allarme rosso torni a suonare di nuovo, Facebook prova a difendersi, affermando di aver consentito ai vari Apple, Samsung, ecc. di accedere ai dati personali degli utenti al solo scopo di portare il social network sui diversi smartphone esistenti, in un periodo in cui non c’erano ancora i negozi di app.
Questa la tesi sostenuta da Ime Archibong, vicepresidente di Facebook, che rispondendo al New York Times, afferma che i costruttori hanno “firmato accordi che impedivano l’uso delle informazioni” per scopi diversi, scrive, e hanno chiesto il consenso degli utenti.
“Nei primi giorni del ‘mobile’ – continua a spiegare Archibong – non c’erano negozi di app, quindi aziende come Facebook, Google, Twitter e YouTube dovevano lavorare direttamente con i produttori di sistemi operativi e dispositivi per portare i loro prodotti nelle mani delle persone”. “Abbiamo creato una serie di API (interfacce di programmazione di una app, ndr) che hanno consentito alle aziende” di portare Facebook sugli smartphone.
Poi una rassicurazione: “I partner non potevano integrare le informazioni nei dispositivi senza il permesso dell’utente”. Nessuna violazione sarebbe stata compiuta dunque anche perché, secondo Facebook “Dato che queste API hanno consentito ad altre società di ricreare l’esperienza di Facebook, le abbiamo controllate in modo stretto sin dall’inizio. Questi partner hanno firmato accordi che impedivano l’utilizzo delle informazioni degli utenti per scopi diversi”.
Dopo il mea culpa su Cambridge Analytica e sulla violazione della privacy di milioni di utenti in tutto il mondo, stavolta dunque Facebook non ci sta: “Contrariamente alle affermazioni del New York Times, le informazioni degli amici, come le foto, erano accessibili sui dispositivi solo quando le persone decidevano di condividere le proprie informazioni con quegli amici”, prosegue il manager, che rimarca: “Non siamo a conoscenza di eventuali abusi da parte di queste aziende”.