Vi interessa aprire un’attività su Internet? Ebbene, vi siete fatti sfuggire l’occasione del secolo. Lunedì sera, per pochi minuti, tra i nomi disponibili per la vendita come dominio, è comparso quello di Facebook.com. Sì, per pochi minuti il dominio più celebre della storia di Internet è risultato libero. E’ stato l’effetto più grottesco (o divertente, a seconda dei punti di vista) dell’errore di configurazione dei giganteschi e sofisticati server BGP (ovvero Border Gateway Protocol) del social network più potente e diffuso al mondo su cui corrono anche Instagram, WhatsApp e Messenger, nonché porta d’accesso alla realtà virtuale di Oculus. Il danno, in realtà, è durato assai di più della momentanea amnesia di Dns. Per più di cinque ore, fino alla tarda serata di lunedì (in Europa), i 3,5 miliardi di utenti che ogni mese fanno uso dei servizi dell’impero di Marc Zuckerberg non hanno potuto spedire o ricevere messaggi o consultare informazioni via Instagram. A protestare sono stati “solo” 14 milioni di clienti, la punta dell’iceberg, che ha inoltrato la sua protesta presso la sede di Menlo Park, contribuendo al panico generale. Ma i danni sono stati quasi incalcolabili, un po’ ovunque. In India, ad esempio, dove la maggior parte del traffico commerciale passa attraverso Facebook, fino a ieri più il mezzo più affidabile. E così via.
Inutile gridare al sabotaggio. Seppur a denti stretti, il social network ha ammesso che l’interruzione dipendeva da un guasto interno. “Le nostre squadre di ingegneri – recita un imbarazzato comunicato – hanno appurato che un cambio di configurazione dei router che coordinano il traffico tra i nostri data center ha creato difficoltà tecniche che hanno portato al blocco di ogni comunicazione”. Quel che non dice il comunicato è che il black-out non ha solo isolato Facebook dal resto del mondo, ma ha mandato in tilt le comunicazioni interne, al punto che, con grande fatica, è stato necessario radunare in mezza America, una squadra di tecnici da mandare sul posto. Un altro schiaffo al primato della connettività sul mondo fisico.
No, non c’è traccia, almeno per ora, di sabotaggio. Ma è difficile sfuggire alla tentazione di far della dietrologia. Il flop delle creature di Zuckerberg ha dimostrato ieri, caso mai ve ne fosse il bisogno, a che punto è arrivata la dipendenza dai social che veicolano opinioni spesso pilotate dalla “Bestia”(copyright di Matteo Salvini). Il tutto poche ore dopo il ricorso dell’Antitrust alla Federal Trade Commission che chiede di annullare l’acquisto di WhatsApp (un miliardo di dollari) e di Instagram (19 miliardi) per violazione delle leggi sulla Concorrenza. Un ricorso simile è stato respinto in passato, ma l’Antistrust è tornato alla carica. E proprio lunedì, un paio d’ore prima del pasticciaccio brutto, Facebook aveva risposto definendo “assurda” l’accusa di monopolio.
Ma il peggio, probabilmente, deve ancora arrivare. Con le sembianze all’apparenza angeliche di Frances Haugen, bionda ingegnere informatica che per due anni ha fatto parte del Team Civic Integrity, cioè una delle squadre messe assieme da Facebook per indagare e reprimere reati ed abusi on line. Ma miss Haugen è diventata un’implacabile accusatrice dei metodi di Facebook. Il social network, forse l’accusa più infamante, ha taciuto i risultati dell’inchiesta interna sui danni alle adolescenti provocati dall’uso scorretto e non vigilato di Instagram perché “è sempre stato privilegiato il profitto sulla sicurezza”. Non meno grave il riferimento alla disinformazione prima delle elezioni presidenziali. Anche in quel caso i controlli sono stati omessi per favorire il traffico e la pubblicità”.
Proprio l’abbandono di tali sistemi di sicurezza sarebbe corresponsabile anche dell’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso. “Avevano pensato che se avessero cambiato gli algoritmi per rendere il sistema più sicuro, la gente avrebbe speso meno tempo sui social, avrebbero cliccato meno le inserzioni pubblicitarie” e Facebook “avrebbe fatto meno soldi”, ha dichiarato. E così via in un crescendo di accuse sempre più pesanti.
Miss Haugen ha raccolto decine di documenti, tra l’altro senza violare segreti aziendali “perché erano fascicoli a disposizione di tutti i 60 mila dipendenti” e li ha girati all’attenzione del Wall Street Journal, il giornale di Rupert Murdoch che su questo materiale ha costruito una formidabile inchiesta che minaccia Zuckerberg più dello stesso black out. Frances Haugen, figlia di pastori protestanti, celiaca, già compagna di un manager che invano ha lottato contro la disinformazione, ha già rilanciato le sue accuse a 60 Minutes, la trasmissione giornalistica più seguita d’America e già stasera concederà il bis al Congresso rinnovando il mito tutto americano del testimone civico, il whistleblower, contro lo strapotere dei soldi.