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Facebook, Amazon, Netflix, Google: i paradossi della new economy

E’ uscito da pochi giorni il nuovo ebook di Fabio Menghini pubblicato da goWare che si intitola “Le FANG: Facebook, Amazon, Netflix, Google. I grandi gruppi della new economy nell’epoca della stagnazione economica” che si interroga sulla possibilità di trovare nuovi paradigmi per uscire dalla palude

Facebook, Amazon, Netflix, Google: i paradossi della new economy

Le Fangs

Da pochi giorni è uscita la nuova opera di Fabio Menghini “Le FANGs: Facebook, Amazon, Netflix, Google. I grandi gruppi della new economy nell’epoca della stagnazione economica” (ebook: €4,99; libro: €10,99) che è il secondo libro di una trilogia sulla digital disruption. Nel 2016 è infatti uscito “Disruptive innovation: economia e cultura nell’era delle start-up”. Menghini sta attualmente lavorando al terzo volume che indagherà le condizioni dei settori e delle aziende della vecchia economia che sono state scardinate dalla digital disruption. Un tema questo che ha fatto la sua irruzione nelle elezioni presidenziali americane prima e ora anche in quelle francesi con il candidato socialista Benoît Hamon che lo ha inserito tra i punti centrali della sua agenda politica.

Giulio Sapelli ha trovato Fangs “bello, utilissimo, chiaro e tremendo per la sua verità sui grandi gruppi della new economy”.

Fabio Menghini ha studiato economia con Giorgio Fuà e i suoi allievi ad Ancona, dove attualmente insegna Strategie industriali e finanza d’impresa presso il Corso di Laurea Magistrale in Scienze Economiche e Finanziarie.

Di seguito pubblichiamo un intervento dell’autore sulla relazione tra grande stagnazione e new economy, un argomento che permea il suo lavoro di ricerca.

Se consideriamo che la crisi finanziaria del 2007 (da cui spesso si data l’inizio della “grande stagnazione”) era stata preceduta dalla crisi speculativa immobiliare del 2003- 2007 e ancora prima dalla bolla di Internet, stiamo vivendo ormai da più di quindici anni in una condizione di deboli riprese seguite da periodi di stagnazione senza segnali credibili di una reale inversione di tendenza.

All’inizio ogni frenata nella crescita del PIL veniva considerata come semplicemente transitoria. Il ciclo economico, si diceva, ha i suoi alti e bassi.

Lentamente, prima con stupore e poi con sempre maggiore consapevolezza, il mondo si sta invece oggi lentamente abituando all’idea che sia possibile vivere in un sistema economico senza crescita.

La fase di crescita è probabilmente finita

Robert J. Gordon, un economista americano della Northwestern University, ha illustrato efficacemente questa condizione affermando: non vi è stata crescita economica negli otto secoli tra la caduta dell’impero Romano e il Medio Evo. Il prodotto reale per individuo in Gran Bretagna, tra il 1300 e il 1700 è a malapena raddoppiato in quattro secoli, a differenza degli americani che nel ventesimo secolo hanno potuto beneficiare di un raddoppio del prodotto pro capite ogni trentadue anni.

Naturalmente la stagnazione in cui il mondo si ritrova oggi dopo una parentesi di circa due secoli, imporrà di rivedere molte di quelle che per decenni si erano considerate come delle certezze. Dalla crescita continua della produttività, dell’occupazione e dei consumi, alla riduzione delle disuguaglianze nei redditi.

Riguardo le disuguaglianze Thomas Piketty osserva: In Europa, il XX secolo ha prodotto una totale trasformazione della società: le disuguaglianze patrimoniali, che alla vigilia della prima guerra mondiale non erano dissimili da quelle dell’ancien régime sono scese fino ad un livello mai toccato in precedenza, al punto che quasi metà della popolazione ha potuto accedere ad un minimo di patrimonio e ha potuto possedere per la prima volta, nel suo complesso, una quota non trascurabile del capitale nazionale. Dopo gli anni ottanta quella marcia apparentemente irresistibile verso il progresso sociale si è bloccata.

Come commenta Stiglitz l’economia e la società nel loro complesso pagano a caro prezzo la crescita delle disuguaglianze.

A partire da una più debole domanda aggregata. Infatti quelli alla base della piramide sociale spendono una più alta frazione del loro reddito di chi sta al vertice (in quanto hanno una più elevata propensione marginale al consumo).

Infine, le società con più grandi disuguaglianze sono tipicamente quelle che registrano una minore capacità di realizzare investimenti pubblici che migliorino la produttività, come ad esempio i trasporti, le infrastrutture, le tecnologie e l’educazione.

La tentazione di impiegare vecchi strumenti (di analisi e di intervento)

In questo nuovo e per molti versi inatteso scenario, i governi e gli uomini politici si stanno muovendo con crescente difficoltà ed ansietà.

Quelle che erano state le parole d’ordine di cinquant’anni fa, sorte e condivise in epoche di ottimismo e sviluppo, sembrano oggi desuete e minacciose. Dalla globalizzazione alla conseguente libera circolazione di merci e persone.

E a ben vedere il trumpismo, pur destinato a creare ancora per molto tempo nervosismo tra le cancellerie dei governi europei e non solo, sembra avere il pregio di esprimere con ingenua chiarezza i suoi principi ispiratori.

Non essendoci idee chiare sul perché l’economia si sia fermata e ancora meno affidabili strumenti di interpretazione dell’attuale “new economy”, meglio tornare tutti alla più conosciuta e affidabile “old economy” che tra i suoi strumenti prevedeva perché no, anche dazi e tariffe doganali, oltre che investimenti in autostrade, ponti e ferrovie.

Sarà la strada giusta? Difficile prevederlo.

Certamente il contributo di autori come Gordon e Piketty ci hanno aiutato a reinterpretare la storia dello sviluppo come un cammino dove accanto ad alcuni, isolati picchi (e ne abbiamo appena svalicato l’ultimo), si estende per secoli una pianura piatta. E ciò evidentemente non ci è di conforto.

Cosa si potrebbe fare oltre alle iniziative annunciate da Trump?

Un suggeritore affidabile, perché vissuto nell’era della Grande Depressione, è sicuramente l’economista Alvin Hansen, che coniò il termine stagnazione secolare, oggi tornato alla ribalta. Secondo Hansen dunque, lo sviluppo economico è trainato da tre driver principali: a) le invenzioni, b) la scoperta, lo sviluppo di nuovi territori e lo sfruttamento di nuove risorse, c) la crescita della popolazione.

Ora poiché appare assai evidente come il secondo e il terzo driver abbiano da tempo esaurito la loro spinta propulsiva, rimarrebbe il primo: le invenzioni.

Il condizionale è d’obbligo poiché sembra ormai piuttosto ben documentato (e si veda in proposito il lavoro monumentale di Gordon), che dopo l’avvento dell’ICT che ha esaurito probabilmente non oltre gli anni settanta, forse quelli ottanta, il suo effetto positivo sulla produttività, siamo entrati in una sorta di carestia delle innovazioni.

Il discusso ruolo delle tecnologie digitali

E Internet ci si chiederà? In realtà il maggiore impatto di Internet è già stato acquisito e risulta ora concentrato sul tempo libero delle persone, dai social media ai siti di viaggi, eccetera, nulla che possa produrre slancio all’economia.

Oggi si parla di Internet delle cose, big data e intelligenza artificiale, tanti nomi dove dietro c’è ancora poco, anche perché finanziare la ricerca costa e poche aziende lo stanno facendo a livello mondiale (tra questi, nonostante quel che si pensi, i grandi della new economy sono nel gruppo di coda in termini di investimenti in R&D). Quindi anche il terzo driver di Hansen potrebbe essere chiamato fuori.

E intanto che sta accadendo dentro l’economia reale, nei settori, nelle aziende?

Non vi è dubbio che se gli economisti sono scettici nell’individuare effetti positivi di internet sulla produttività, molti ce ne sono stati (e non sempre positivi) in altri contesti.

Innanzitutto nello spostare tutto il mondo sviluppato dalla manifattura ai servizi (e non è cosa da poco, perché la produttività, ne ha risentito. Assai più alta nella media della manifattura, nei servizi solo pochi settori avanzati tengono testa all’industria).

E poi nel cambiare modalità di lavoro. Oggi milioni di individui lavorano in contemporanea scrivendo stringhe di software o partecipando a conference call, connessi da tante e diverse parti del mondo, in gran maggioranza lavorando ormai da casa.

E il contenuto del lavoro stesso si è modificato. Poco lavoro pregiato, quello di qualche migliaia di pagatissimi geni dell’informatica, quello dei CEO milionari ovviamente e poi una moltitudine di job anonimi e senza molto valore aggiunto. Per i quali poco è il salario e ancor meno il potere contrattuale. Perché una volta fuori dalla grande rete mondiale a cui tutte le mattine ci si connette col proprio token ring, restano solo le mansioni nei servizi tradizionali, che, curiosamente, crescono in questo scenario: camerieri di fast food e commessi, è da qui che è provenuta la gran parte della recente crescita dell’occupazione stimolata da Obama.

Oggi la “gig economy” l’economia dei lavoretti è celebrata come un fatto innovativo e pochi si sentono di riconoscerla per quello che è: una forma di sfruttamento del lavoro, una condanna al precariato in un’epoca di disoccupazione endemica.

I grandi paradossi della new economy 

Ciò nonostante esistono oggi dei grandi player, cresciuti in quest’epoca recente ad una velocità che non ha paragoni nella storia, realizzando guadagni giganteschi, trascinando le borse mondiali. Osserva l’Economist, citando una ricerca di Bain, che i grandi gruppi scalano oggi la classifica di Fortune 500 ad una velocità più che doppia di quella delle aziende di venti anni fa.

Le FANGs (Facebook, Amazon, Netflix e Google), giusto per dare un’idea, dal 2014 hanno realizzato da sole più del 90% degli incrementi sul totale della capitalizzazione dello S&P 500.

Purtroppo, a differenza dei grandi gruppi del secolo scorso la ricchezza che generano non si diffonde, resta in mano a pochi. E l’economia non riparte.

Mentre risultano ormai evidenti le problematiche che questi colossi transnazionali generano in termini di evasione fiscale, elusione delle leggi anti trust, rispetto della privacy di miliardi di consumatori e cittadini in tutto il mondo.

Infine, ancora un paradosso, questi grandi protagonisti dell’era di Internet, che hanno attivamente distrutto interi comparti della “old economy”, basano di fatto il loro successo su modelli di business che nulla hanno di nuovo: pubblicità e vendita al dettaglio, conditi con nuovi media e tecnologie, insieme a violazioni di leggi statali e regionali, politiche di dumping, rapporti di lavoro sottopagati ed umilianti.

Ce ne è abbastanza per pensare che nuovi e imperiosi compiti si prospettino oggi ai governi nazionali. Quanto prima essi saranno in grado di liberarsi dai paradigmi tradizionali, da vecchie chiavi di lettura e intervento riguardanti sia la old che la new economy, tanto meglio risulteranno in grado di disegnare nuovi e più efficaci misure di intervento a sostegno dell’economia e della società.

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