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Extratassa sulle banche: sbagliati i presupposti e dannosi gli effetti dell’insostenibile leggerezza del Governo. Ecco perché

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Chiunque sia in possesso di una cultura di livello medio sa che la stabilità patrimoniale delle banche è necessaria per assicurare la fiducia, oltre alla solvibilità tecnica, che i flussi di cassa di imprese e persone possano liberamente circolare nel sistema economico come il sangue circola nell’organismo umano, e che il denaro dei depositanti possa alimentare il credito che sostiene consumi ed investimenti. Sa pure, chi ha una cultura media, che un corretto impiego del denaro avviene, deve avvenire, secondo quel principio basilare che stabilisce una relazione il più possibile lineare tra la sua rischiosità ed il suo rendimento. Chi frequenta questo sito non ha bisogno certo di dare ulteriori spiegazioni. Ne avrebbero bisogno, per contro, quanti hanno deciso la tassa sui margini dell’intermediazione del denaro, sia per i presupposti dai quali sono stati indotti, sia per la considerazione che hanno dimostrato di avere della natura stessa della raccolta delle banche.

Partiamo dai presupposti. Dicono Meloni e Salvini: l’aumento dei tassi è colpa della Bce, danneggia l’economia (primariamente il costo dei mutui per la casa) e determina ingiusti margini di profitto delle banche perché queste non hanno correlativamente aumentato la remunerazione dei depositi. Ora, la presunta colpa della Bce è quella di adempiere al suo mandato statutario di combattere l’inflazione; e l’inflazione, nelle economie di mercato, si combatte esattamente con una politica monetaria tesa a ridurre la domanda aumentando il costo dei finanziamenti. Poi si potrà discutere sul dosaggio di questa manovra, ma il suo fondamento è questo. Forse Meloni e Salvini hanno in mente alternative per controllare l’inflazione, ma non ce l’hanno dette.

La tassa sugli extraprofitti intacca la solidità patrimoniale delle banche

Passiamo all’intermediazione. Per quel che riguarda le banche, queste fungono da cinghia di trasmissione al sistema economico della politica attuata dalla Bce: se questa innalza i tassi di riferimento, le banche seguono innalzando il costo dei finanziamenti inducendo così nel sistema economico il voluto effetto antinflazionista. Devono automaticamente innalzare anche la remunerazione dei depositi? La risposta è: no. E perché dovrebbero farlo? Non devono farlo almeno per due motivi. Il primo è che, operando come un qualsiasi soggetto economico, tendono a ridurre la spesa, nel caso la remunerazione della raccolta. Aumentano questa remunerazione se hanno bisogno di aumentare la raccolta, ma se non ne hanno bisogno perché dovrebbero aumentarla? Dicono Meloni e Salvini: ma così le banche guadagnano di più. Ecco il famigerato extraprofitto: un extra non quantificato, ma comunque un extra. E allora? Qualsiasi operatore economico che possa utilizzare a proprio vantaggio una legittima opportunità lo fa; lo fa nelle piccole e nelle grandi cose: lo fa la grande multinazionale industriale o finanziaria come lo fa ognuno di noi. Che c’è di male? Le banche, tra l’altro, devono farlo più di altri sia perché quei profitti sono in buona parte destinati a rafforzare il patrimonio che ne garantisca la stabilità anche in presenza di turbolenze dei mercati finanziari, sia perché la parte residua è distribuita agli azionisti, che in larghissima misura non sono “paperoni”, ma fondazioni che finanziano sanità, istruzione, opere benefiche, iniziative culturali. Lo sanno Meloni e Salvini?

La tassa sulle banche rischia di essere un boomerang

Evidentemente no. E non sapendolo si sono messi a coltivare i depositanti considerandoli un potenziale serbatoio di voti da acquisire. Così almeno credono, perché la mossa di questa bislacca tassazione non favorisce affatto chi deposita, anzi, al limite lo penalizza. Per lo stesso motivo per cui la remunerazione dei depositi non è aumentata (scarsità di concorrenza ed inerzia dei depositanti) è difficile che possa aumentare nel prossimo futuro se non altro perché le banche, senza gridarlo ai quattro venti, tenteranno di recuperare in qualche modo il maggior onere che gli hanno caricato addosso. E poi – ecco l’inerzia – se il depositante ha mantenuto in conto la sua liquidità, mica è stato obbligato: c’è una miriade di impieghi possibili per chi vuole un rendimento; se non ha considerato questa scelta è perché preferisce la immediata disponibilità del suo denaro al reddito che potrebbe ricavarne. La politica del governo invece sottende la sovversione del principio richiamato all’inizio ritenendo “giusto” che un impiego a rischio zero, com’è il conto corrente, debba fruttare un rendimento. E non basta: c’è un’altra latente sovversione che la bulimia di populismo rischia di produrre: è quella che viene dalla componente “moderata” della maggioranza che propugna l’esenzione da questa sovrattassa delle piccole banche. Ecco: a quaranta e più anni dalla legge Amato per ottenere l’aggregazione delle banche, e con tutto quello che nel frattempo è successo, ora ci mettiamo a favorire le banche locali.

L’extratassa smaschera il volto populista delle forze politiche

Abbiamo citato Meloni e Salvini, ma correttezza vuole che si ricordi come quasi tutte le altre forze politiche, in una perversa gara a chi è più populista, hanno salutato positivamente, e con pari dimostrazione di ignoranza, questa iniziativa esponendosi ad una figura non delle migliori quando arriverà l’annunciata lettera di osservazioni della Bce, quando potrebbero concretarsi le non peregrine ipotesi di incostituzionalità, e quando dovesse riaffacciarsi – non si sa mai – un po’ di buonsenso.

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