Condividi

Extraprofitti: la scure della politica sulle banche e non solo è il frutto avvelenato di un populismo che può fare molti danni

Dai francescani del XIII secolo agli attuali dibattiti sugli extraprofitti bancari, il denaro è sempre al centro delle polemiche. I depositi a vista non sono risparmi, e la tassazione degli extraprofitti appare più una promessa elettorale che una soluzione concreta. È tempo di una riflessione seria sulla cultura economica che eviti illusioni e truffe politico-contabili

Extraprofitti: la scure della politica sulle banche e non solo è il frutto avvelenato di un populismo che può fare molti danni

Già nel XIII secolo, grazie soprattutto ai francescani, la Chiesa superò la considerazione del denaro come “lo sterco del diavolo” e del tasso di interesse sui prestiti come un grave peccato, dal momento che si tratta di una speculazione sullo scorrere del tempo che non appartiene all’uomo, ma a Dio. Sono passati otto secoli, ma quella conquista del pensiero dalla quale derivò l’uso produttivo del denaro e, quindi, il grande risveglio anche economico del Rinascimento, non ha raggiunto ancora le radici più profonde della cultura diffusa. Il denaro, seppure diventato il parametro esclusivo e pervasivo di ogni valore, è ancora visto per altro verso con diffidenza se non addirittura come portatore e simbolo di sperequazioni e di ingiustizie.

L’emersione carsica della querelle sugli utili delle banche e, più in generale, sui cosiddetti extraprofitti ne è una dimostrazione di lampante evidenza. Ed a poco è valso che, già quando questa storia cominciò, l’idea di una loro tassazione una tantum naufragò malamente per il vulnus che sarebbe stato violentemente arrecato al principio che in un sistema di libero mercato il legislatore non può stabilire quanto una impresa, per sua natura volta al profitto, debba guadagnare (beninteso nel rispetto delle leggi vigenti), quindi stabilendo un limite del tutto arbitrario alla equità del suo guadagno, per di più discriminando secondo il settore nel quale quell’impresa opera, e stabilendo la tassazione del suo profitto dopo che questo sia stato conseguito.

Il mercato del denaro: come funzionano banche e tassi

Chiedo scusa per la banalità, ma evidentemente non è superfluo ricordare che in estrema sintesi una banca commercia denaro: ne compra da chi glielo vende e lo rivende a chi glielo richiede. Offerta e domanda di denaro ad una banca sono libere e vengono espresse da una parte da chi il denaro lo possiede, e dall’altra da chi del denaro ha bisogno. I prezzi? Dovrebbe essere ovvio che se l’offerta di denaro alle banche è molto alta la loro remunerazione sarà bassa (e perché non dovrebbe esserlo? Perché dovrebbe pagarlo, diciamo, il 4% se gliene offrono in quantità al 2%?). Così è per il reimpiego di quel denaro: la banca deciderà secondo la sua convenienza a chi prestarlo (e perché dovrebbe prestarlo al 2% se può ottenerne il 4%?) o a chi ridepositarlo (ad esempio alla Bce secondo il tasso da questa fissato nel quadro della sua politica monetaria).

Depositi bancari: un illusorio “risparmio” da sfatare

Chiedo scusa anche per quest’altra banalità, ma non è superfluo ricordare che i depositi a vista nelle banche non vanno considerati risparmio; ripeto anche sulla base dell’interpretazione data al precetto costituzionale sulla protezione del risparmio: I DEPOSITI BANCARI NON SONO RISPARMIO, ma eccedenze di cassa affidate alla banca che le custodisce, ne tiene la contabilità, provvedendo ad un tempo a pagamenti e trasferimenti: servizi che semmai devono essere remunerati. Del resto, se deve valere il sacrosanto principio secondo il quale la remunerazione del denaro deve essere proporzionale al rischio, perché dovrebbe essere remunerata una giacenza di cassa a rischio quasi sempre pari a zero?

Il risparmio è quello impiegato in titoli obbligazionari, in azioni, in immobili, in iniziative produttive con vari gradi di rischio e, proporzionalmente, di remunerazione. Dal che discende che ogni intervento dall’alto del potere politico legislativo giustificato dalla apertura della forbice tra tassi attivi e passivi è, tra il molto altro, anche diseducativo e contrario all’esigenza, che dovrebbe essere avvertita in ogni Paese poco poco evoluto, di indurre una maggiore e più diretta partecipazione della cittadinanza alle vicende dell’economia sia nel pubblico che nel privato.

Tassa sugli extraprofitti: verità o illusione?

Due ultime notazioni a latere. La prima: se parliamo di extraprofitti, perché consideriamo solo quelli delle banche e delle imprese finanziarie? Forse perché queste non votano e la loro penalizzazione è di difficile collegamento con l’interesse di chi vota? Di extraprofitti in giro non ce ne sono mica pochi. La esecrabile legge del 110%, per dire, fu scritta così male per cui (è solo un esempio tra i tanti che si possono fare) sono stati caricati sul bilancio dello Stato prezzi di listino pieno di prodotti normalmente venduti con il 30-40% di sconto (caldaie a condensazione o impianti di climatizzazione, tanto per dire). Altro che extraprofitti ne sono stati generati! Seconda notazione: si dice che la tassazione degli extraprofitti (pardon: contributo) serve per le pensioni minime, la riduzione dell’Irpef ed altre occorrenze del genere bellamente promesse prima delle elezioni. Ma la copertura con una entrata una tantum di occorrenze definitive è una truffa politico-contabile che si risolve solo in un rinvio del problema al prossimo bilancio. Nel tempo, la spesa pubblica è esplosa anche per la reiterazione di questa populistica pratica.

Commenta