La vertenza dell’ex Ilva si riprende la scena politica. Dopo la settimana di Sanremo e dei trattori, la sorte dell’acciaieria di Taranto ritorna nell’agenda politica. Stamattina i rappresentanti delle le imprese dell’indotto si sono incatenati davanti alla prefettura consegnando le chiavi delle loro aziende. Poco prima avevano tolto i presidi davanti ai cancelli dello stabilimento. In un clima dialogante ma fermo aspettano risposte da Roma, dove tra annunci e indiscrezioni si cerca di gestire la situazione dopo la rottura con Arcelor Mittal. “Togliamo il presidio – ha detto Fabio Greco presidente dell’Aigi, l’associazione che riunisce le imprese dell’indotto – ma mancano i fondi per pagare i collaboratori ed è forse questo l’elemento dirimente che i soci non intendono comprendere”. Le decine di imprese che da anni lavorano per lo stabilimento sono parte del problema, ma il contesto nel quale si gioca il destino industriale di Taranto va molto oltre.
Decarbonizzare per non chiudere
In Senato questa settimana riprende anche l’esame dei provvedimenti del governo, mentre domani in commissione Industria sarà audita l’amministratrice delegata di Acciaierie d’Italia Lucia Morselli. Uno dei temi da affrontare saranno proprio i crediti vantati dalle imprese, le quali, tra l’altro, vedono la scelta dell’amministrazione straordinaria come elemento penalizzante per i 3 miliardi di crediti vantati. Dalla loro parte si è schierato il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ,secondo cui per non chiudere l’acciaieria bisogna inserirla “in una visione chiara sulla politica industriale e sulla competitività del Paese”.
Una buona frase a effetto, ma non si è capito bene cosa proponga in concreto Confindustria. Tutto converge su una semplice domanda: perché l’Italia non ha ancora un piano nazionale per la siderurgia? La richiesta di acciaio nel mondo è ripresa e ovunque esistono impianti dove la produzione è diventata compatibile con l’ambiente e la salute.
Il piano di decarbonizzazione messo in piedi per Taranto dal cda, senza la rottura con ArcelorMittal, prevede l’eliminazione delle emissioni inquinanti nell’arco di un decennio. Niente più carbone o gas, ma forni elettrici. In Svezia, Germania, Francia ci sono acciaierie che lo hanno fatto. Hanno riconvertito gli impianti, lavorano con energie pulite, non hanno licenziato nessuno e sono sul mercato a vendere prodotti sostenibili.
La “vision” che non c’è
La sfida italiana è tutta qui: nell’innovazione e nella serietà di chi governa di liberarsi dallo strabismo e da una sorpassata idea di industria. Tutto nel mondo globalizzato si misura con la forza di affrontare il cambiamento per sostenerlo, non per scansarlo. In altre parole avare una “vision”. La destra al governo in Italia, è libera di applaudire le posizioni anti-green della contraddittoria protesta dei trattori, ma in questo modo nega l’aspirazione a una società non più prigioniera di schemi precostituiti. Batta un colpo se pensa a qualcosa di prospettico per l’antica acciaieria.
Taranto è diventata il paradigma di una cultura industriale al limite del disfattismo che ha finito per contagiare anche una certa sinistra. Per la sopravvivenza dello stabilimento non sono andati oltre il “qui e ora” paralizzando ogni idea di modernità. Bastava alzare lo sguardo a quelle realtà industriali che cambiano pelle pur di restare sul mercato. Il mercato mantiene l’economia anche dell’acciaio e quanto più non viene innovata la produzione, tanto più si cancellano posti di lavoro, si manda CO2 in atmosfera con vecchi altiforni, si provocano tumori e ci si trova dalla parte sbagliata della storia. Bisognava (bisogna) mettere insieme manager capaci, esperti ambientali non fumosi, sindacati ispirati da serio riformismo, governatori e sindaci concreti. Abbiamo assistito, invece, a un gioco delle parti a danno di tutto e tutti.
Chi ricorda il piano Bondi
Nel 2013 il commissario straordinario Enrico Bondi presentò un piano industriale basato sul preridotto per salvare Taranto. Il preridotto è un semilavorato siderurgico prodotto con gas o con idrogeno verde. È richiesto dal mercato ed è la nuova frontiera della siderurgia mondiale. Per paradosso lo sanno anche i manager di Arcelor Mittal. Quel piano, purtroppo, non ebbe successo. Bondi fu costretto a lasciare l’incarico e a Taranto si è continuato ad andare avanti come se nulla fosse. Si disse solo che il gas costava troppo per quell’innovazione. Una tesi cieca, controproducente con conseguenze disastrose avallata da tutti anche da coloro che non rinnegano l’uso delle tecnologie. Nessuno ha mai fatto mea culpa e sarebbe ora.
Nei giorni scorsi abbiamo contattato il dottor Bondi, che con grande garbo non ha voluto commentare quella vicenda che lo ha segnato nella sua carriera di manager. Lo stabilimento nel 2012 era stato posto sotto sequestro dalla magistratura per disastro ambientale. Gli anni successivi – se quel piano fosse passato – non avrebbero segnato la disfatta di cui ci occupiamo. L’elettrico, il preridotto, l’uso di idrogeno pulito nella siderurgia, sono il futuro. C’è addirittura una società di Invitalia, la DRI porta nel nome il preridotto (Direct Reduced Iron)come innovazione per l’industria italiana. Ė nata nel 2022 è cosa ne facciamo ? Taranto entra nella transizione energetica o deve diventare archeologia industriale?
La partita da oggi si riapre e da Roma si aspetta il segnale per la soluzione. Commissariamento o altro, nei prossimi mesi dovranno entrare in vigore i provvedimenti in esame in Parlamento con un Piano speriamo definitivo. Per l’ex Ilva si ha notizia anche di un interessamento della società ucraina Metinvest già presente a Piombino. Una fuga in avanti? I rapporti con ArcelorMittal sono definitivamente chiusi? Il ministro Adolfo Urso la settimana scorsa ha detto di no, ma il destino della ex più grande acciaieria d’Europa deve uscire dalle nebbie.
La premier Giorgia Meloni si è pronunciata poco o nulla sulla vicenda ,eppure si sa che legge tutti i dossier più delicati. L’ex Ilva lo è, e lei farebbe bene a dare un indirizzo chiaro. Almeno per far capire agli italiani quale strada si vuole intraprendere per non licenziare, produrre senza provocare morti e danni ambientali e riscattare un sito industriale tra i più forti d’Italia.
Un disastro tutto all’italiana fatto di politici incompetenti (i nostri) e aziende senza scrupoli (straniere) interessate soltanto ai nostri benefici fiscali. Un secolo fa qualcuno forse avrebbe suggerito di dare l’azienda in mano agli operai. Oggi questa sembrerebbe la soluzione piú intelligente