Nessun accordo fra azienda e sindacati sulla cassa integrazione per i dipendenti dell’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia. Lunedì le parti si sono incontrate per un ultimo incontro al ministero del Lavoro, ma quando nel primo pomeriggio si è unita al vertice anche l’amministratrice delegata del gruppo, Lucia Morselli, la rottura si è consumata in modo definitivo. La ragione è semplice: la produzione di acciaio nell’ex Ilva è scesa da 8 a 6 milioni di tonnellate l’anno e, per risollevarla, l’azienda non intende aumentare la forza lavoro.
In mattinata, nel corso della riunione, s’era accesa una speranza quando il numero dei lavoratori da mettere in cassa integrazione era sceso fino a 2.750 dagli iniziali 3mila. Gli operai, a Taranto, aspettavano notizie con lo sciopero indetto da Uilm e Usb che ha visto i lavoratori presidiare la direzione del siderurgico. Alla fine, però, non è arrivato alcun accordo. Ora Acciaierie d’Italia potrà decidere unilateralmente numeri e percorsi: esattamente ciò che il ministero del Lavoro sembrava voler evitare.
Le reazioni dei sindacati
Fim Cisl
“L’azienda applicherà in modo unilaterale come ha sempre fatto la cassa straordinaria – afferma Valerio D’Alò, della segreteria nazionale Fim Cisl – Pensavamo ad un piano transitorio per un anno, per poi capire cosa sarebbe successo dopo e sulla base della produzione modulare il numero delle persone interessate. L’azienda invece ha chiesto un piano su tre anni, all’interno dei quali rimettere in discussione anche i numeri sanciti nell’accordo sindacale del 2018 in cui la piena occupazione era sancita a sei milioni di tonnellate. In sostanza, oggi l’azienda ci ha detto voleva produrre 2 milioni di tonnellate in più (arrivando a 8 milioni), con lo stesso personale e quindi non aumentare gli organici”.
Fiom Cgil
Secondo la Cgil, “non si può ipotizzare il ricorso ad uno strumento per 12 mesi e prevedere il rientro dei lavoratori nel 2025, vincolato ad una risalita produttiva diversa da quella definita nel 2018”.
Uilm
Rocco Palombella, leader Uilm, aggiunge: “L’azienda oltre alla previsione di 3 mila esuberi non ci ha dato alcuna indicazione sul futuro assetto societario che potrà avvenire a maggio, se ci sarà o meno la salita al 60% di Invitalia, né sulle tempistiche di costruzione e messa in marcia del forno elettrico, dell’impianto di preridotto e dell’altoforno 5. Con questo piano l’azienda prevede nel tempo il licenziamento di 3 mila lavoratori, a cui si aggiungono i 1.700 attualmente in amministrazione straordinaria: un disastro occupazionale inaccettabile”.
Ugl
Critica anche l’Ugl, secondo cui le garanzie richieste non sono coerenti con le “reali intenzioni dell’azienda, che porta a una ristrutturazione che traguarda il 2025. Su queste premesse, era inevitabile il mancato accordo”, affermano in una nota congiunta il segretario nazionale Antonio Spera e il vicesegretario nazionale Daniele Francescangeli.
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