L’ex Ilva, ora ribattezzata Acciaierie d’Italia, il colosso siderurgico che a Taranto gestisce il più grande stabilimento d’acciaio d’Europa, non cambierà proprietà né governance a maggio, com’era inizialmente previsto, e per ora resterà nelle mani del gigante ArcelorMittal, che attualmente detiene il 62% del capitale a fronte del 38% di Invitalia (controllata dallo Stato italiano attraverso il Mef).
La ragione del rinvio del cambio di controllo e di governance è semplice e, come ha raccontato dettagliatamente Il Sole 20 Ore nei giorni scorsi, dipende dal fatto che mancano le tre condizioni che avrebbero dovuto riportare la bandiera italiana sullo stabilimento di Taranto e sulle altre fabbriche che fanno parte di Acciaierie d’Italia. Gli accordi negoziati dal Governo Conte nel 2020 con ArcelorMittal – la multinazionale con sede in Lussemburgo il cui uomo-chiave è l’indiano Lakshmi Mittal, che detiene il 37,5% del capitale – si stanno rivelando una trappola per gli italiani, al punto che, tra le file del Governo, c’è chi dice che dovrebbero essere rinegoziati. E non è escluso che un tentativo in tal senso venga compiuto.
Ex Ilva non passerà sotto il controllo di Invitalia per tre ragioni
Ma perché a maggio non avverrà l’aumento di capitale attraverso il quale Invitalia, cioè lo Stato italiano, sarebbe dovuta salire al 60% assumendo il controllo dell’ex Ilva e cambiando anche la governance, che attualmente assegna la guida del gruppo a Lucia Morselli, Ad in rappresentanza di ArcelorMittal? Perché mancano i presupposti e cioè il rispetto delle tre condizioni che, secondo gli accordi malamente negoziati nel 2020 dal Governo Conte, prevedevano tassativamente:
- la modifica del piano ambientale esistente per tenere conto delle novità del nuovo piano industriale;
- l’assenza di misure restrittive nei confronti di ArcelorMittal nel quadro dei procedimenti penali in cui Ilva è imputata;
- la revoca di tutti i sequestri penali relativi allo stabilimento di Taranto.
Secondo Il Sole 24 Ore, è soprattutto la terza condizione il punto critico, perché, salvo sorprese, è molto improbabile che vengano dissequestrati gli impianti dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto non solo entro maggio, ma addirittura prima della scadenza del piano ambientale, prevista per l’agosto del 2023.
Più produzione ma anche cassa integrazione in arrivo
Malgrado le infinite traversie che hanno tormentato la sua navigazione, l’ex Ilva si avvia a chiudere positivamente il bilancio 2021 e a raggiungere 6 milioni di tonnellate di produzione di acciaio nei prossimi 12 mesi, ma si sta preparando anche a ricorrere a un anno di cassa integrazione, che – è sempre Il Sole 24 ore a sostenerlo – potrebbe riguardare circa 3.500 lavoratori e che non farà certamente felici i sindacati.
Scritto su il Giornale il 20febbraio