Ci mancava Fantasia, il nome di un altro gigante immobiliare cinese che, al pari di Evergrande sospesa in Borsa in attesa di sviluppi sull’enorme debito (305 miliardi di dollari), giovedì non è stata in grado di pagare gli interessi su due bond in dollari, la cui quotazione è precipitata del 50%. Insomma, la minaccia di una frana dell’immobiliare cinese continua a pesare sulla stabilità della finanza globale proiettando una luce sinistra sugli equilibri del sistema. “Non esageriamo – frena Michele Geraci, docente a Nottingham ed alla New York University, ex sottosegretario del governo gialloverde, artefice di quell’avvicinamento con Pechino che è durato meno di una stagione – Il sistema gode di un ampio consenso. Ci fossero le elezioni, per dirla con un paradosso, Xi JingPing vincerebbe alla grande. Ma i problemi, nell’immobiliare come per l’ambiente, non mancano di sicuro, come è comprensibile per un Paese che conta 1,4 miliardi di abitanti”.
Dietro la crisi di Evergrande, frutto delle fiammate speculative sul mercato della casa, spunta senz’altro il malumore per i profitti dei “baroni del mattone” accusati dai giornali vicini al partito di essere i veri responsabili del malcontento che ha portato alle proteste di Hong Kong. Non a caso proprio in questi giorni la governatrice dell’ex colonia, Carrie Lam, ha lanciato un piano che prevede la costruzione di mezzo milione di alloggi popolari nei nuovi territori a nord della metropoli con l’obiettivo di sgonfiare la bolla del mattone, nel quadro della campagna per il “benessere comune” lanciato da Xi contro l’arricchimento eccessivo e la diseguaglianza crescente.
“In realtà bisogna distinguere – precisa Geraci – la disuguaglianza tra città e campagna, dove vive il 40 per cento della popolazione, è agli stessi livelli di quarant’anni fa. In questo caso il redito urbano è di 2,7 volte quello rurale. È invece difficile, date le caratteristiche del Paese quantificare la concentrazione del reddito. Ma al di là delle percentuali è senz’altro forte il risentimento popolare nei confronti degli ultraricchi, gli ipermiliardari che hanno fatto fortuna in questi anni. Non si contesta il successo negli affari, ma è sempre più viva l’ostilità nei confronti della corruzione. Non a caso Xi ha prima lanciato la campagna contro la corruzione, poi si è scatenato contro i nuovi ricchi”.
Emblematica in questo quadro la figura di Xiu Jiavin, diventato uno degli uomini più ricchi del Paese con la quotazione in Borsa di Evergrande, dieci anni fa. Una foto dell’epoca lo ritrae sorridente in piazza Tien an Men, smartphone in mano e cintura con fermaglio d’oro da 20 mila yuan (2.500 dollari dell’epoca), all’ingresso del palazzo dell’assemblea del Popolo in cui era stato chiamato come esempio dell’insegnamento di Deng Xiao Ping, ovvero che “arricchirsi è rivoluzionario”. Xu Jiavin aveva preso in parola il messaggio di Deng lanciato a Shenzhen, la città più vicina alla capitalistica Hong Kong nel 1992, tre anni dopo il massacro di Tien an Men. Lui, nato nel 1958 nella provincia dello Henan, nel mezzo della grande carestia provocata dalla politica del Balzo in avanti (tra i 30 ed i 50 milioni di morti), a otto mesi viene affidato ai nonni dopo la morte della madre in una casa dal tetto di paglia che lascia filtrare l’acqua quando piove. Dopo un’infanzia tribolata approda nel 1978, dopo la Rivoluzione Culturale, all’istituto dell’acciaio di Wuhan. Di lì, per una decina d’anni, lavora in una fonderia scalando le gerarchie interne. Ma quando Deng lancia il suo appello il giovane Xu capisce che è arrivata la sua occasione e parte alla volta di Shenzhen che nel giro di pochi anni si trasforma da villaggio di pescatori nella Silicon Valley d’Oriente con i suoi 30 milioni d’abitanti e una Borsa hi tech che fa concorrenza al Nasdaq.
È lì che nel 1996 fonda Hengda che in mandarino significa “grande per sempre” ovvero Evergrande, una società immobiliare che cavalca la nascita del mercato della casa. Fino a quel momento gli alloggi erano di proprietà dei donwei, le unità di lavoro. Da allora in poi si creano le premesse per avviare le grandi imprese con un gigantesco passaggio di ricchezze pilotato prima dalle aziende di Stato, poi dai contatti con il potere locale e nazionale. “Xu Jiavin ha fatto fortuna grazie alle relazioni che ha stabilito ai più alti livelli – ha scritto il ricercatore australiano Richard Mc Gregor autore del Mondo segreto del partito comunista cinese – Non poteva essere diversamente in un Paese ove lo Stato possiede la terra e controlla le banche”. E Xu, che ha cambiato il nome nel più snob Hui Ka Jan, intrattiene relazioni ai livelli più alti, fino ad assumere il fratello dell’ex primo ministro Wen Jiabao. Un’ascesa irresistibile finché le autorità, su mandato del presidente Xi, hanno deciso di stringere i cordoni del credito ad un gigante dai piedi d’argilla. Con una missione politica ben precisa: smantellare il gruppo, restituire i capitali ai clienti ed ai risparmiatori cinesi. E, con quel che avanza (probabilmente poco) ripagare i grandi creditori internazionali che in questi anni hanno comunque fatto buoni affari con il Drago. Nella speranza che i Big di Wall Street collaborino.