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Eurozona, l’origine della crisi è istituzionale: senza un cambio di passo c’è solo il collasso

FIRSTonline

Per spiegare l’origine della crisi dei debiti sovrani l’economista belga Paul De Grauwe ricorre a un confronto fra la situazione della Spagna e del Regno Unito. Quando la crisi è scoppiata, il debito pubblico britannico era di 17 punti superiore a quello spagnolo, ma i mercati hanno preso di mira il debito del paese iberico.

E la ragione di questo comportamento risiede nel fatto, secondo De Grauwe, che i paesi dell’eurozona emettono debito in una moneta “straniera” e gli investitori non hanno la sicurezza che alla scadenza il paese debitore disponga della liquidità necessaria per rimborsare i titoli. Già all’origine della crisi vi è quindi un fattore istituzionale: l’Unione monetaria è nata in Europa senza unità politica e la Banca Centrale Europea, in assenza di un potere europeo che la sostenga, è limitata nella sua capacità di intervento e per agire deve ottenere il consenso degli Stati membri e in particolare di quelli più forti.

Questo fattore istituzionale spiega in gran parte perché le decisioni prese, a ondate successive, dal Consiglio Ecofin o dall’Eurogruppo o dal Consiglio europeo siano rimaste senza effetti. Consideriamo, ad esempio, la decisione presa nel Summit di Bruxelles del 28-29 giugno di finanziare direttamente le banche spagnole per un ammontare fino a 100 miliardi di euro e di favorire l’acquisto di titoli pubblici dei paesi in difficoltà – per evitare l’allargamento eccessivo degli spread – attraverso il meccanismo temporaneo salva-stati e, quando sarà in vigore, dal Meccanismo Europeo di Stabilità. Decisioni importanti ma rimaste lettera morta. Di fronte all’ulteriore allargamento dello spread e al crollo dei mercati finanziari, in un comunicato congiunto poi smentito da Parigi ma implicitamente confermato dal ministro Passera i governi francese, spagnolo e italiano avrebbero preteso l’applicazione immediata di queste decisioni, senza tener conto del fatto che i mercati non hanno fiducia nelle decisioni europee perché queste non sono supportate da un governo dotato di un potere autonomo e, quindi, capace di agire. Il punto di riferimento rimangono i governi nazionali e il quadro macroeconomico dell’economia dei singoli paesi, e non dell’intera area. Senza un cambio di passo decisivo sul terreno istituzionale per arrivare a un governo europeo dell’economia sottoposto al controllo democratico del Parlamento europeo, il rischio di un collasso dell’Unione monetaria appare ogni giorno sempre più difficile da tenere sotto controllo e in definitiva da evitare.

In realtà, di fronte alla crisi dei debiti sovrani la risposta dei governi europei si è limitata a promuovere il consolidamento della finanza pubblica con misure restrittive da parte di tutti i paesi dell’area. In particolare, con l’approvazione in corso del fiscal compact viene imposto ai paesi membri dell’eurozona di portare il bilancio sostanzialmente in pareggio, di inserire la regola del pareggio in Costituzione (o in un atto legislativo di livello analogo: è quello che faranno i francesi), di rendere possibile il ricorso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea nel caso in cui la regola non venga rispettata, e di ridurre di un ventesimo ogni anno la differenza fra il rapporto attuale debito/Pil e il livello del 60% fissato dal Trattato di Maastricht. Al di là delle osservazioni che si possono fare per la mancata considerazione della regola aurea per cui il pareggio deve essere imposto alla parte corrente del bilancio mentre il debito deve essere destinato al finanziamento degli investimenti, si debbono fare due osservazioni in merito ai contenuti del fiscal compact. In primo luogo, non ci può essere consolidamento fiscale senza sviluppo. E’ la “regola del pollice” della finanza pubblica secondo la quale ogni punto in meno di crescita comporta mezzo punto in più di disavanzo. Ma se gli Stati non possono più fare politiche espansive fondate sul debito, questo compito deve essere consentito all’Unione europea.  L’eurozona non ha né un governo responsabile della politica di crescita, né un bilancio, finanziato da risorse proprie, capace di promuovere gli investimenti necessari per avviare l’Europa lungo il sentiero di uno sviluppo sostenibile. La seconda osservazione riguarda la democrazia. Nella crisi europea decisioni fondamentali per la vita dei cittadini vengono sempre più prese da organi non dotati di legittimità democratica. Giustamente la cancelliera Merkel chiede che, se vengono utilizzate risorse finanziarie prelevate dai cittadini tedeschi, ci sia un’Unione politica in grado di controllare come queste risorse vengono poi spese. Ma il governo tedesco non prende poi l’iniziativa per avviare il processo che deve portare all’Unione politica. Hic Rhodus, hic salta. Si tratta di avviare da subito un’iniziativa politica per invertire questa tendenza che alimenta gravissime tensioni sociali e tende ad allontanare sempre di più i cittadini dal processo di unificazione europea.

Al Consiglio europeo di fine giugno i governi si sono limitati a fissare i termini di tempo per la fine della fase di riflessione (dicembre 2012), a stravolgere la lettera e la sostanza del trattato attribuendo a se stessi la titolarità (owhnersip in inglese) della riforma dei trattati e a circoscrivere l’unione politica alla sola unione economica e monetaria. Tutto ciò non basta a saziare i mercati che conoscono bene la debolezza intrinseca di una moneta senza Stato, non garantisce ai cittadini la legittimità democratica e dunque l’accettabilità delle decisioni e non assicura l’efficacia e l’efficienza dell’Eurozona. Diceva Tommaso Padoa Schioppa che occorre superare la schizofrenia fra una sola “European economic constituency” e ventisette ma presto ventotto “national political constituency”.

All’Unione europea serve – e con urgenza – una dimensione costituzionale e in tutte le nostre democrazie le costituzioni sono state elette da assemblee costituenti. Per settimane Il Sole 24 Ore ha fatto campagna per gli Stati Uniti d’Europa come sola soluzione per salvare l’Euro. Crediamo che l’aggravarsi della crisi esiga che quella campagna venga continuata fissando i termini del progetto, il metodo e l’agenda per realizzarli. I trattati di Roma sono stati scritti, approvati e ratificati in due anni e mezzo. Con un atto di discontinuità europea potremmo passare dall’Unione agli Stati Uniti d’Europa entro la fine del 2014 (che coincide con la conclusione della presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea).

Pier Virgilio Dastoli è presidente del Movimento Europeo in Italia (CIME) e coordinatore del Gruppo Spinelli al Parlamento europeo essendo stato assistente parlamentare di Altiero Spinelli.

Alberto Majocchi è professore di Scienza delle Finanze all’Università di Pavia. E’ stato presidente dell’Istituto di Studi e di Analisi Economica (ISAE) e in precedenza segretario politico del Movimento Federalista Europeo (MFE).

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