Il risultato principale è stato raggiunto e Donald Trump non avrà un secondo mandato. Scalzare il presidente in carica che si presenta per la riconferma è un’impresa ardua, riuscita dieci volte in quasi 250 anni e 44 presidenti, e tre sole volte nel ‘900. Accadde nel 1932 quando Franklin D. Roosevelt vinse su Herbert Hoover, nel 1980 quando Ronald Reagan nonostante sondaggi contrari spodestò Jimmy Carter, e nel 1992 quando Bill Clinton mandò a casa Bush senior ma non per forza propria bensì grazie al terzo partito, nazionalista, di Ross Perot, che portò via a Bush milioni di voti. Quindi, onore a Joe Biden.
La proclamazione determinante ma ancora ufficiosa (quella ufficiale arriva sempre alcune settimane dopo il voto) potrebbe tardare ancora; ma probabilmente non sarà necessario aspettare il 12 novembre e la scadenza della conta dei voti nella Pennsylvania – per l’arrivo cioè delle ultime schede via posta spedite però entro il 3 – e della inutile riconta, chiesta da Trump, in Georgia; Arizona e Nevada forniscono i numeri sufficienti per doppiare il capo, a ore probabilmente, dopo che la vittoria di Biden in Michigan e Wisconsin ha fatto la prima fondamentale differenza tra sconfitta e vittoria. Nel Midwest Biden si riprende così, se si aggiunge la più che probabile Pennsylvania, i tre Stati che per un soffio di 77mila voti dettero a Trump la vittoria nel 2016, e allora a differenza di quanto fa Trump oggi nessuno parlò veramente di brogli e furti e nessuno agitò teorie complottiste. Il suo partito in genere tace e a volte smentisce brogli e imbrogli, cosa che il filo Trump nostrano Matteo Salvini ha capito anche questa volta in ritardo.
L’uso di un linguaggio a tinte forti e l’ossessione del complotto è parte integrante di quella destra repubblicana che fu rilanciata una trentina di anni fa dal deputato Newton Gingrich, oggi stretto alleato di Trump e da sempre suo consigliere ombra. Gingrich, che fu anche presidente della Camera nel 95-99, fu autore tra l’altro di una circolare ai giovani deputati oltranzisti che si era allevato intitolata “Il linguaggio: elemento-chiave del controllo” in cui raccomandava per definire i democratici l’uso di termini quali “malati, patetici, menzogna, spregiatori della bandiera, traditori, radicali, corrotti ”. Una lettura proficua anche per Trump, che voleva Gingrich nella sua squadra come vicepresidente nel 2916, fino a quando prevalse il fatto che un duo con un totale di sei mogli avrebbe fatto fatica a sostenere la triade Dio patria famiglia avrebbe fatto pensare a un harem islamico.
Accanto alla vittoria di Biden, l’altro dato di fondo della consultazione è però che i repubblicani perdono sì la presidenza ma hanno vinto o almeno non hanno affatto perso sul resto del fronte: Congresso, governatori e i 7383 incarichi elettivi locali, cioè le 98 assemblee locali, con due stati che hanno una sola assemblea, gli altri camera e senato. E’ dal 2010 che i repubblicani dominano, e il 2020 con l’80% dei seggi locali in gioco ha confermato il loro controllo ormai i decennale sui 3/5 del totale, con la vittoria in due dozzine di assemblee. “L’attesa onda blu democratica si è infranta nelle assemblee degli stati” ha titolato il New York Times, mentre anche la dozzina di governatori in gioco ha visto la conferma del rapporto a vantaggio dei repubblicani, che conquistano una poltrona in più (Montana) e salgono a 27 contro 23. Alla Camera federale di Washington il partito repubblicano resta minoranza ma con 5 seggi in più e altri 2 o 3 arriveranno dalle 10 gare non ancora chiare. Al Senato ci sarà per due seggi un ballottaggio a gennaio, ma i repubblicani potrebbero rimanere maggioranza.
Insomma, ha perso Trump ma non hanno perso i repubblicani che sono ormai da una generazione un partito radical-nazionalista con una forte impronta nazional-populista lasciata da Gingrich e che ha cambiato radicalmente la mentalità e la storia di un partito. I repubblicani hanno fatto l’America moderna più dei democratici, dalla Guerra Civile in poi, in nome del potere federale centrale, del capitalismo, dell’industria, e dello slogan “the business of America is business”, senza mai risolvere la contraddizione tra la volontà della massima espansione commerciale e finanziaria nel mondo e, a fianco, la forte preferenza per una minima presenza militare e diplomatica.
La sfida sovietica cambiò in parte questa impostazione, basata alla fine sui due slogan, Fortress America e America First, vecchissimi e collaudatissimi e ben prima di Trump, e consentì la politica bipartisan a guida democratica che ha creato le strutture dell’American Century, dal Piano Marshall all’appoggio all’unificazione europea, alla Nato al pieno sviluppo del Fondo Monetario al Gatt, poi Wto, sul piano commerciale, e a molto altro ancora. Ma attenzione, i democratici, partito degli immigrati, delle periferie e fino a pochi decenni fa della più grande delle periferie, il Sud agricolo e un tempo anti-industriale, il Solid South populista del primo 900 in nome del common man, e razzista, non hanno mai incarnato in pieno e con piena legittimità storica l’ethos americano proprio perché “l’altro partito”, ben più vecchio dei repubblicani ma non così rappresentativo degli USA potenza finanziaria e industriale, e nato a inizio 800 non per, ma contro lo stato centralizzato.
La Storia ha chiamato più volte i democratici a compensare i limiti repubblicani, con Woodrow Wilson prima e soprattutto con Franklin Roosevelt ed Harry Truman poi, e lo hanno fatto egregiamente. Così bene che nel 1964, al passaggio del Civil Rights Act e dopo la straordinaria vittoria che confermava Lyndon Johnson alla Casa Bianca e umiliava Barry Goldwater e il suo tentativo di vincere con la radicalizzazione dei repubblicani, veniva proclamata la fine del conservatorismo americano. Lo facevano il NYT e il New Yorker, sottoscrivevano molti altri e storici di fama come Arthur Schlesinger Jr. e James McGregor Burns, e si trattava come dirà più tardi lo storico Rick Perlstein, “di uno dei più drammatici fallimenti di giudizio collettivo nella storia del giornalismo americano”. Vietnam e Watergate spezzeranno per sempre l’eccezionale fiducia nei leader; 70 anni fa il 50-60% si affidava con tranquillità a Washington, da 50 anni o poco meno va bene quando è il 25-30% a nutrire questa fiducia.
Su questa sfiducia la destra è risorta. In parte già con Richard Nixon distrutto poi dal Watergate, assai più con Ronald Reagan che poi però si attenne o quasi al principio di Clinton Rossiter secondo cui “non c’è America senza democrazia, non c’è democrazia senza politica, non c’è politica senza partiti, e non ci sono partiti senza compromessi e moderazione”. Ed è questo che Newton Gingrich, nome poco noto a molti in Europa ma che sta a Trump si licet come il Battista stava a Gesù, ha sempre negato. Estremizzazione, non moderazione. Nemici, non concorrenti. Soluzioni radicali, non compromessi. Per fare che cosa?. Lo stesso Gingrich, un paio d’anni fa, riassumeva la sua filosofia così: “Portare quelli che sono dentro fuori, e quelli che sono fuori dentro”. Cioè cambiare chi comanda, e far comandare il popolo. Cioè “noi”. Ancora, per fare che cosa? Alla fine, come per tutti quelli che non hanno altro, in politica resta il nazionalismo esasperato, e così è andata a finire con Trump, sempre avvolto nella bandiera di cui si ritiene unico difensore.
Gingrich ha dato una delle migliori definizioni di Trump, chiamandolo “l’orso grizzly” che stacca la testa con una zampata, mentre di sé ebbe a dire che “io sono l’unica cosa che ci separa da Auschwitz”. Senza di me cioè la fine dell’America. E da salvatore della civiltà occidentale si è sempre atteggiato. A Joe Biden la Storia ha riservato il ruolo di chi dovrà raccogliere i cocci di Trump, senza ritorni di un passato che non torna. E, prendendo atto di tutto ciò che oggi è diverso, ridare un senso alle espressioni “Occidente” e “leadership americana”. Per farlo, dovrà partire dalla necessità di far capire a strati crescenti di chi ha votato Trump che non si può costruire una politica sui social, con parole d’ordine di solo combattimento, e senza idee.
Biden ha i numeri per fare questo. E’ un moderato, scelto giustamente dal suo partito e fatto ingoiare a vari “trumpisti di sinistra” democratici. Non è abbastanza vecchio per aver fatto la Seconda guerra mondiale (dovrebbe a vere 90 anni) ma è figlio e ha vive memorie di quella classe dirigente. E’ un profondo conoscitore del mondo e dell’Europa, per i lunghi anni alla Commissione Esteri del Senato, di cui fu a lungo anche presidente. Era, quasi 50 anni fa, il giovane senatore che seguiva l’allora in auge eurocomunismo, poi scomparso. Ed è il presidente che deve affrontare il grave nodo cinese, di una potenza che sfida gli Stati Uniti e ha quella forza economica che l’Urss non ha mai avuto. Per farlo occorre associare l’Europa e avere il miglior rapporto possibile con le sue capitali, Bruxelles in testa, inevitabili dispute commerciali a parte, e certamente con più finanziamenti europei per la Nato, tasto sul quale Biden insiste da decenni.
Fra poco più di due mesi Trump lascerà la Casa Bianca, sua sponte o scortato dai servizi di sicurezza. E speriamo sia, pian piano, un’altra America. Il messaggio intanto è arrivato subito in Europa, e Matteo Salvini e Boris Johnson non hanno apprezzato. Con Trump cade il perno del sovranismo, come si chiama oggi l’ipernazionalismo, e vediamo ora come Biden riesce a gestire la preziosa opportunità, resa possibile probabilmente e dato l’evidente ascendente su mezza America del trumpismo (repubblicanesimo ipernazionalista estremizzato) solo dalla funesta epidemia da Covid 19 e dalle sue conseguenze.