L’Europa salvata da Draghi e Tsipras?
Il bilancio di una delle molte “settimana cruciali” per l’Europa si chiude con due novità: il programma di “espansione quantitativa” (o QE) deciso a Francoforte, e la formazione del governo Tsipras, uscito dalle urne greche, con Yanis Varoufakis ministro delle finanze. Si tratta, a mio parere, di due buone notizie, che potranno favorire la ricerca di soluzioni nuove alla profonda crisi europea.
La vera novità della BCE
Si è molto discusso, in questi giorni, dell’entità e della durata degli acquisti dei titoli (pubblici e privati) e su chi si accollerà il rischio di tenere quei titoli. Ma la vera novità è che a partire dal mese di marzo l’acquisto di titoli emessi dagli stati membri dell’Eurozona diventa, per la prima volta, uno strumento di politica monetaria.
SMP, OMT e QE
È noto che la BCE è una banca centrale singolare, che non può svolgere le tradizionali “operazioni di mercato aperto” con i titoli del governo centrale per il semplice motivo che un governo centrale non c’è. Si è sempre però conformata alla pratica delle altre banche centrali astenendosi dall’acquisto dei titoli dei governi locali (allo stesso modo la Fed non fa operazioni sui titoli degli stati e dalle municipalità). C’erano state fin qui due sole eccezioni: il Securities Market Programme (2010-2012) che prevedeva acquisti limitati, temporanei e poco trasparenti di titoli di stato, e le Outright Monetary Transactions (OMT), acquisti eccezionali di titoli di singoli paesi, condizionati a un programma di assistenza finanziaria, e mai attivati.
Le operazioni di mercato aperto su titoli europei
Questa volta, il “QE sovrano” dell’asset purchase programme introduce uno strumento che corregge un limite strutturale della politica economica europea. La BCE potrà utilizzarlo in futuro anche in forme diverse dal QE. Un segnale potrebbe essere il fatto che, a differenza di SMP e OMT, Draghi questa volta non ha sentito il dovere di sottolineare che si tratta di “operazioni non convenzionali”. Una novità nella novità è l’inclusione del debito delle istituzioni europee (come Banca Europea degli Investimenti o European Stability Mechanism) nelle operazioni di QE, ponendo in tal modo le basi per le future operazioni di mercato aperto su titoli ‘centrali’ e non più ‘locali’.
La cinghia di trasmissione della politica monetaria resta debole
Quanto all’impatto su crescita e occupazione è bene essere prudenti. Il comunicato della BCE, mirato all’obiettivo di riportare l’inflazione al 2%, indica due canali di trasmissione: 1) minori tassi sul credito dovrebbero sostenere una maggiore spesa per consumi e investimenti finanziata da una crescita del debito privato; e 2) la liquidità che le banche incasseranno dall’operazione potrà essere utilizzata per acquistare altre poste all’attivo ed espandere il credito. Sulla seconda, è difficile seguirne la logica. Il credito bancario crescerà quando le imprese vedranno le opportunità di una ripresa della domanda. E già prima del QE nulla impediva alla singola banca che avesse voluto erogare più prestiti a farlo. Non è certo la disponibilità di più riserve (sulle quali peraltro le banche dovranno pagare lo 0,20% di interessi) a fare la differenza.
La restrizione fiscale continuerà a fare male all’Europa
Non c’è molto da aspettarsi dal fatturato delle imprese finché le politiche fiscale restano restrittive (vedi Salviamo l’Europa dall’austerità, Vita e Pensiero, 2014). La riduzione dei tassi potrà avere qualche effetto positivo, neutralizzato tuttavia dal minimo storico dei rendimenti sui capitali finanziari e i fondi pensione (che sta mettendo in crisi, ad esempio, il sistema pensionistico tedesco). Un livello dei rendimenti vicino, se non sotto, zero è un altro fattore di contenimento della domanda. Nemmeno fa ben sperare il silenzio di Draghi in conferenza stampa a proposito dello strumento fiscale, che nei mesi scorsi aveva invece incluso nella sua ricetta per l’Europa. Il rischio è che il consenso tedesco all’operazione di Francoforte possa portare con sé minori concessioni sul fronte delle politiche di bilancio. Qualche limitato effetto positivo potrebbe venire dall’eventualità che le politiche fiscali nazionali riescano nell’operazione non facile di trasformare la minore spesa in interessi in stimoli all’economia.
Il cambio
Se l’Eurozona è incapace di generare domanda interna, un euro più debole può creare domanda estera. Ma la cautela è d’obbligo. Il QE non ha effetti certi sul cambio col dollaro. E la deflazione europea e l’avanzo delle partite correnti dell’Eurozona spingono semmai nella direzione opposta. Ma anche se l’euro restasse debole, è ragionevole aspettarsi un sostegno alla domanda più importante in Germania che, ad esempio, in Grecia, aggravando gli squilibri regionali. E se la crescita americana rallentasse, rischiamo comunque di trovarci al punto di partenza.
Tsipras, Varoufakis e il debito greco
Il nuovo ministro delle finanze greco è autore di una proposta, scritta con Stuart Holland e James K. Galbraith che circola da diversi anni in ambiente accademico. Essa non ha come obiettivo il salvataggio della Grecia ma quello dell’Europa. Varoufakis si presenta dunque sul tavolo europeo con un disegno già discusso in diverse sedi (ad esempio INET), e con il vantaggio di vincoli più favorevoli di quelli ipotizzati nella proposta originale (grazie al QE). E in cerca di alleati (l’Italia?). Moderato ottimismo sulla tenuta finanziaria dell’euro, dunque, ma per vedere scendere il numero dei disoccupati dell’Eurozona (più di 18 milioni) resta ancora molto da fare.