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Europa e Ucraina senza l’America dopo lo showdown Trump-Zelensky? Le difficili scelte della premier Meloni

Malgrado lo shock dell’umiliante incontro di Trump e Zelensky alla Casa Bianca, l’Europa e l’Ucraina sono davanti al dilemma di come riallacciare rapporti costrittivi con l’America e un compito particolarmente complicato spetta a Giorgia Meloni

Europa e Ucraina senza l’America dopo lo showdown Trump-Zelensky? Le difficili scelte della premier Meloni

La liturgia consolidata degli incontri fra Trump e i suoi interlocutori stranieri è che si comincia con un incontro nello studio ovale con l’interlocutore e pochi intimi in presenza di alcuni giornalisti selezionati. Lo scopo è scambiarsi piacevolezze, solleticare l’ego di Trump e preparare la discussione seria che avverrà in un contesto riservato. Alla fine, è prevista una conferenza stampa comune. Chi ha la pazienza di guardare tutti i fatidici cinquanta minuti dell’incontro di venerdì fra Trump e Zelensky esploso al primo stadio, sarà innanzitutto colpito dalla lunghezza. Lo scambio è cominciato con i consueti convenevoli bilaterali, mutualmente amichevoli. Poi ha tirato in lungo mentre emergeva il nodo del problema. In sostanza, l’incompatibilità fra due diverse esigenze: quella di Trump del riconoscimento che la sua sola firma basta per rendere un accordo credibile e quella di Zelensky di avere solide garanzie di fronte a un avversario sicuramente inaffidabile.

Dopo quaranta minuti di discussione tutto sommato molto cortese, la situazione è esplosa in seguito a un intervento estemporaneo e offensivo di Vance nei confronti di Zelensky. Gli ultimi minuti sono quelli che tutti conosciamo. Anche chi è refrattario alla dietrologia, è tentato di pensare che quella tesa a Zelensky nello studio ovale fosse una trappola e che la rottura fosse deliberata dall’inizio. Altrimenti perché Trump, maestro di cerimonia, avrebbe lasciato durare così a lungo e in pubblico una discussione importante e prevedibile, ma che avrebbe dovuto aver luogo in privato. Ne è testimone la frase finale di Trump: this was great television. Difronte alla stessa domanda sulle garanzie da parte di Macron e Starmer, Trump aveva scelto di evitare di rispondere. Tutto ciò tra l’altro interviene dopo il clamoroso voto all’Onu che ha visto gli Usa schierati con Russia e Cina contro l’Europa.

Qual è la strategia di Trump?

A questo punto, la prima domanda che si pone è cosa vuole Trump? Una risposta è che vuole un accordo con Putin quale che sia il costo per l’Ucraina e per l’Europa; ma per quale obiettivo? Forse per vantaggi economici, ma che sembrano comunque molto modesti. Forse per tentare di separare la Russia dalla Cina; un parallelo invertito di ciò che fece a suo tempo Nixon. Il problema è che quando Nixon e Kissinger realizzarono la brillante operazione, i rapporti fra la Cina e l’Urss erano già fortemente deteriorati. Quelli fra la Russia attuale e la Cina non cessano invece di consolidarsi. Possono forse essere attenuati, ma un repentino cambiamento di rotta da parte di Putin non è credibile. Sorge allora un’altra teoria: che per Trump l’accordo con Putin sia solo il primo tassello di un disegno più vasto di accordo fra le grandi potenze per la spartizione dell’influenza sugli affari mondiali. In sostanza, una nuova Yalta a livello planetario. In questa prospettiva, la prossima vittima sacrificale sarebbe Taiwan. È però difficile che funzioni in un mondo pieno di potenze medie che sgomitano per allargare il loro spazio di manovra. I vantaggi per Russia e Cina sarebbero evidenti.

Non si vede, a parte la gloria personale di Trump, cosa guadagnerebbero gli Usa. I riflessi negativi si sentirebbero non solo in Europa, ma anche fra gli alleati della America in Asia. Gli Usa passerebbero in pochi mesi dall’essere al centro della più grande rete di alleanze che la storia abbia mai conosciuto, a una situazione di sostanziale isolamento e di conflitto soprattutto con gli alleati. Il potere dell’America riposerebbe solo sulla forza, certo considerevole, ma che Trump teorizza di non voler usare. C’è infine una terza ipotesi: che Trump non abbia alcuna visione complessiva e che affronti i problemi separatamente, unicamente in modo opportunistico e guidato da una particolare forma di megalomania.

e persone di buon senso hanno ragione di continuare a sperare che all’interno della società americana e soprattutto nel partito repubblicano, si sveglino le forze della ragione prima che sia troppo tardi. Il silenzio assordante dei senatori repubblicani è inquietante, ma nei media vicino al partito repubblicano si leggono analisi severe. La maggioranza dei repubblicani al Congresso è comunque molto fragile e un partito democratico meno stordito dalla sconfitta avrebbe ampi spazi di manovra. Anche perché, oltre alle contraddizioni della politica estera, Trump dovrà presto affrontare anche le conseguenze di quelle della sua politica interna, soprattutto economica. Speculare su questi sviluppi non ha comunque oggi molto senso perché ci vorrà comunque tempo e ci sono urgenze che non possono aspettare.

Il ruolo dell’Europa

In queste condizioni, cosa può e deve fare l’Europa? In realtà abbiamo due imperativi. Il primo di adottare rapidamente misure credibili: atti concreti, non intenzioni o procedure. Il secondo è di non fare promesse che non sapremmo mantenere. La divisione fra questi due imperativi è molto sottile, ma non impossibile da gestire. Il dilemma che abbiamo è il seguente. Se si considerano le previsioni dei principali analisti, lo sforzo aggiuntivo che l’Europa deve affrontare per rendere credibile la sua capacità di difesa di fronte alla minaccia russa, è economicamente sopportabile anche se considerevole: meno di due punti di PIL per l’UE e il Regno Unito. Il problema è che, anche se le decisioni che si impongono venissero prese oggi, ci vorrebbe tempo per darvi seguito in modo efficace. Nell’immediato e per un periodo di tempo a determinare sarebbe impossibile, sul piano sia industriale che operativo, non disporre di un sostegno americano; una carta difficile da giocare ma non impossibile. Dopo tutto quella di un maggiore impegno europeo è una delle principali richieste di Trump; molti avranno notato le sue sperticate lodi alla Polonia durante l’incontro con Starmer. Hanno quindi ragione coloro che incitano a non interrompere il dialogo con l’America; ciò che comporta anche favorire la ripresa del dialogo costruttivo ma non umiliante fra Zelensky e Trump. Altrettanto importante è il contatto che gli altri alleati che hanno rispetto all’America di Trump problemi analoghi ai nostri.

Anche se non inabbordabile, l’impegno che si richiede all’Europa richiede comunque una forte mobilitazione dell’opinione pubblica. Essa è possibile solo intorno a una visione condivisa della minaccia russa. Di fronte al conflitto in Ucraina, assistiamo infatti a due visioni contrapposte anche da parte di coloro che non esitano ad attribuire a Putin la responsabilità della guerra. Per alcuni, si tratta essenzialmente di un conflitto che riguarda l’Ucraina; Trump condivide questa visione, ma non è il solo. Lui va anche più lontano condividendo molte delle tesi di Mosca. Ci sono invece coloro che ritengono che la guerra attuale sia solo una componente di un insanabile conflitto fra la Russia di Putin e l’Europa; un conflitto che avrà termine solo quando la Russia avrà superato la visione imperiale che ha del mondo e di sé stessa. Solo questa seconda analisi è capace di mobilitare l’opinione.

Un’Europa divisa

Questo dilemma, che chiaramente ci divide da Trump, esiste anche in Europa. Gli scandinavi, i baltici e la Polonia lo hanno chiaramente superato. Probabilmente ciò è vero anche per la Gran Bretagna. Nei grandi paesi, Francia, Germania e Italia, gli equivoci sono invece numerosi a destra come a sinistra dello schieramento politico. Macron lo ha chiarito, ma deve ancora convincere il paese. Colpisce che molti di coloro che criticano acerbamente la “pace di Trump” sono gli stessi che tre anni fa esprimevano opposizione a una “guerra per procura” in cui ci trascinava l’America di Biden e chiedevano iniziative europee in vista di una pace non dissimile da quella che oggi Trump preconizza. Colpisce anche il coro di chi ci spiega che “dunque de Gaulle aveva ragione”. Dimenticando forse che l’Europa dall’Atlantico agli Urali di De Gaulle non era molto diversa da quella di Trump: distante dall’America, basata su nazioni indipendenti, amica della Russia e soprattutto indifferente alla sorte degli altri paesi dell’est europeo. La chiarezza sulla visione è quindi una premessa indispensabile per la credibilità della strategia europea.

Resta l’ultima domanda: cos’è l’Europa? È chiaro che non saranno i 27. L’unica soluzione è una coalizione di volonterosi che parte dall’arco che va dalla Scandinavia alla Polonia e comprende Germania, Francia e Regno Unito; tre paesi senza i quali non ci sarebbe massa critica. Il tutto con il benevolo sostegno esterno delle istituzioni dell’UE. Sostegno importante a causa dell’inevitabile collegamento con il contenzioso economico che esse saranno chiamate a gestire. La svolta avverrà solo quando un simile gruppo di paesi metterà gli altri di fronte al fatto compiuto di una posizione definita. Posizione che dovrà affrontare in modo credibile il breve termine urgente, cioè il sostegno all’Ucraina, e il medio termine cioè la costruzione di una “autonomia strategica” europea. A quel punto gli altri membri dell’Ue dovranno decidere. La scelta di Giorgia Meloni sarà particolarmente difficile perché metterà in gioco l’equilibrio della sua coalizione di governo. L’operazione non è impossibile, ma è soprattutto tanto più urgente che c’è il pericolo che Trump interrompa da subito il sostegno militare all’Ucraina. Fallire vorrebbe dire che Zelensky e l’Ucraina resterebbero soli malgrado tutte le dimostrazioni verbali di affetto. Una sconfitta morale da cui l’Europa potrebbe difficilmente risollevarsi.

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