La scorsa settimana da Bruxelles sono arrivati alcuni chiarimenti circa l’applicazione delle clausole di flessibilità contenute nel Patto di Stabilità e Crescita. Lo scopo è quello di incoraggiare gli investimenti e le riforme strutturali facendo il “miglior uso possibile” della flessibilità già esistente nei Trattati. A molti la pubblicazione di queste linee guida è sembrata un passo in avanti verso un allentamento del rigore “imposto dall’Europa”, svolta fortemente voluta dall’Italia, e fatta propria dalla Commissione Junker. Di certo, le nuove linee guide contribuiranno a rendere le decisioni europee più trasparenti e, soprattutto, più prevedibili. Ma siamo proprio sicuri che l’effetto finale per i paesi membri sarà quello di aver ottenuto margini di flessibilità maggiori? Forse non del tutto e vediamo il perché.
La comunicazione dell’esecutivo europeo mira a chiarire l’interpretazione, e quindi l’applicazione, delle clausole di flessibilità, ossia quella delle riforme strutturali, quella degli investimenti e quella relativa agli effetti del ciclo economico
Per quanto riguarda le riforme, la Commissione precisa che al paese che rispetta il limite del 3 per cento (ossia che si trova nel braccio preventivo del Patto) – che è il caso dell’Italia – potrà essere concesso di deviare temporaneamente dall’obiettivo di medio temine del bilancio in pareggio (o dal percorso di avvicinamento verso di esso), se adotta riforme con impatti di lungo periodo verificabili e positivi, sia sul bilancio che sulla crescita potenziale. La deviazione non potrà superare lo 0,5 per cento del Pil e dovrà essere corretta entro quattro anni. Nel caso in cui le riforme non fossero ancora state attuate, potranno essere prese in considerazione solo se ben definite, con scadenze credibili per la loro adozione e attuazione. Per l’Italia, l’impatto delle riforme, in particolare il Jobs Act, verrà esaminato a marzo, e se l’esito sarà positivo (come è probabile) ciò darà luogo a margini di flessibilità.
Per quanto riguarda la clausola degli investimenti, anche in questo caso, si può deviare – sempre in maniera temporanea -, dall’obbiettivo di medio termino e dal suo percorso di convergenza, ma a condizioni ben precise. In primo luogo, il limite del 3 per cento deve essere rispettato. In secondo luogo, sono considerati “ammissibili” solo gli investimenti volti a cofinanziare i progetti europei inseriti nel quadro della politica strutturale e di coesione (compresi i progetti cofinanziati nell’ambito dell’Iniziativa a favore dell’occupazione giovanile), le reti transeuropee e il Fondo del Piano Junker. Questi investimenti devono avere effetti positivi, diretti, e verificabili sulla crescita di lungo periodo e sula sostenibilità delle finanze pubbliche. Infine, la clausola può essere attivata solo se la crescita del Pil è negativa o il Pil resta ben al di sotto del suo potenziale (con un conseguente divario tra prodotto effettivo e potenziale superiore a meno 1,5% del Pil). Nel caso dell’Italia, che nel 2015 dovrebbe registrare una crescita del prodotto interno lordo positiva (0,6 per cento secondo le stime del governo) e un output gap negativo (-3,5 per cento), questa clausola potrebbe essere applicata alla spesa volta a cofinanziare progetti europei: il sottosegretario Delrio l’avrebbe quantificata in circa 4 miliardi di euro.
Va precisato però che deviare dall’obiettivo di medio termine non significa che questi investimenti potranno essere scorporati dal disavanzo. In sostanza “nessuna Golden Rule” ha precisato la Commissione. Del resto, i tedeschi (ma non solo loro) si sarebbero opposti: l’esperienza dimostra che tale regole mette a rischio il bilancio pubblico. In Germania, ad esempio, la Golden Rule è stata introdotta nella Costituzione (articolo 115) nel 1969: il debito pubblico in poco meno di trent’anni è aumentato dal 20 al 63 per cento del Pil. Nel 2009, il governo di Grosse Koalition della cancelliera Merkel decise pertanto di eleminarla.
Per quanto attiene all’effetto del ciclo economico, la Commissione ha chiarito che “utilizzerà una matrice che specifica l’appropriato aggiustamento di bilancio da richiedere ai paesi”. D’ora in avanti, per conoscere l’entità della correzione che ogni paese membro dovrà apportare al proprio disavanzo strutturale, sarà sufficiente consultare questa nuova matrice pubblicata a pagina 20 della Comunicazione. Ad esempio, nel 2015, l’Italia avendo un output gap pari a -3,5 per cento e quindi compreso tra -4 e -3, si colloca nella casella “Very Bad Times” e pertanto dovrà effettuare una correzione dello 0,25 per cento, e non dello 0,5 per cento come precedentemente richiesto. Buone notizie quindi.
Le cose, però, già a partire dal 2016 cambiano. L’output gap italiano è stimato a -2,6 per cento, con un Pil che cresce più del potenziale. In base alla matrice, l’Italia si troverà nella casella “Bad times”, (output gap compreso tra -3 e -1,5), che prevede una correzione dello 0,5 per cento. In sostanza, nonostante l’output gap italiano sia molto vicino all’intervallo precedente ossia quello di “Very bad times” (output gap compreso tra -4 e -3), non ci sarà alcuna possibilità di negoziare una correzione inferiore. Bisognare attenersi a ciò che prevede la matrice! Lo stesso vale per il 2017. Con un ouput gap stimato a -1,4, l’Italia rientra nella casella “Normal times”, (ouput gap compreso tra -1,5 e +1,5), che richiede una correzione superiore allo 0,5 per cento. Con un output gap peggiore solamente di un decimo di punto percentuale, l’Italia sarebbe rientrata nella casella precedente e la correzione sarebbe stata solo dello 0,5 per cento. Un obiettivo che, forse, sarebbe stato raggiungibile attraverso un negoziato politico se non ci fosse stata la matrice. Del resto, chi potrebbe obbiettare che un output gap, ad esempio pari a -1,55 per cento sia molto diverso da quello stimato per l’Italia nel 2017 pari a -1,4 per cento?
Questi esempi, un po’ tecnici, mostrano che, se fino ad oggi esistevano dei margini di negoziazione con la Commissione, ora diventa molto più complicato. D’ora in avanti, farà fede ciò che prevede la tabella, e si riducono notevolmente gli spazi di discrezionalità esistenti. Basti pensare che per il 2015, l’Italia aveva praticamente già ottenuto il semaforo verde ad una correzione dello 0,3 per cento, nonostante lo sforzo inziale previsto dalla Commissione fosse dello 0,5 per cento. In pratica, sembrerebbe che alla richiesta di “maggiore flessibilità”, la Commissione abbia risposto piuttosto concedendo “maggiore chiarezza” e “maggiore trasparenza”. E ciò ha comportato, di fatto, l’attribuzione di più potere alla cosiddetta burocrazia (attraverso l’utilizzo della matrice) e, di conseguenza, minori margini per la politica. Forse, il contrario di ciò che si voleva ottenere.