Dopo ciò che è successo domenica sera, due narrative si incrociano: quella francese, con la clamorosa decisione di Macron di indire nuove elezioni legislative, e quella europea. Non ho la pretesa di esprimermi sulla prima, ma solo ricordare che sarebbe oggi un errore dare per scontata una vittoria dell’estrema destra il 7 luglio. Tuttavia, una eventuale scommessa persa da parte di Macron potrebbe influenzare profondamente la dinamica europea. In primo luogo perché un possibile governo di estrema destra in Francia, pur senza intaccare gli importanti poteri del Presidente della Repubblica, destabilizzerebbe la politica europea di uno dei grandi paesi fondatori dell’Ue. Inoltre per gli effetti che ciò avrebbe sulla galassia sovranista; un insieme di forze politiche variegato e per molti versi contraddittorio che cerca una sua identità. L’importanza della bomba francese non deve però far trascurare la prospettiva europea, anche perché le due narrative sono comunque destinate a incrociarsi.
La campagna elettorale appena conclusa ha discusso animatamente di una questione inedita: bisogna riconfermare alla testa della Commissione la Presidente uscente Ursula von der Leyen (UvdL), designata spitzenkandidat da parte del suo partito il Ppe? La campagna è quindi inevitabilmente diventata anche un giudizio sul suo operato e sulla sua persona. Ciò ha incitato i sostenitori e agli avversari di UvdL di qualificare la loro posizione anche in funzione del tipo di Europa che auspicavano o pretendevano di auspicare. Inoltre le elezioni si sono svolte sullo sfondo dell’aspettativa di un forte progresso dei partiti populisti e sovranisti di destra; sono quindi state presentate come una scelta fra “più o meno Europa”. Ciò ha contribuito a una campagna elettorale caratterizzata da una forte polarizzazione volutamente enfatizzata dai media; una polarizzazione che però non teneva conto del provvidenziale effetto moderatore del sistema elettorale, ovunque proporzionale. Alla luce dei risultati, colpisce la relativa stabilità del quadro europeo, in contrasto con l’instabilità e la lacerante polarizzazione di molte situazioni nazionali.
Smentite le previsioni di un cambiamento radicale
Ora disponiamo dei risultati. Come era prevedibile, pur spostando a destra l’asse del nuovo Parlamento, non ne modificano radicalmente gli equilibri. L’atteso progresso della destra radicale è stato comunque disuguale: per esempio, è stato evidente in Francia e in Italia, inferiore alle aspettative di qualche settimana fa in Germania e in Spagna, deludente in Polonia. Il risultato è tuttavia sufficiente a rendere più fragile nelle aspettative e ora nella realtà la continuazione del predominio della tradizionale coalizione dominante che riunisce Ppe (popolari), Sd (socialisti) e Renew (liberali), recentemente anche con il concorso dei verdi. La questione del ruolo futuro dei partiti sovranisti ha comunque dominato la campagna e atterra ora sul tavolo dei governi e del Pe; essa riguarda soprattutto i rapporti con Giorgia Meloni, rafforzata dai risultati, allo stesso tempo leader di un partito sovranista e alla guida di uno dei grandi paesi dell’Ue. Persona con cui tra l’altro UvdL ha recentemente instaurato con una certa ostentazione buoni rapporti. Alla domanda se sia giusto riconfermare UvdL, si aggiunge quindi quella se sia accettabile che della maggioranza chiamata a eleggerla faccia parte anche FdI, il partito di Giorgia Meloni. Questione che si incrocia in modo contraddittorio con la dichiarata aspirazione di Meloni di porsi come leader di uno schieramento sovranista. Schieramento di cui alcuni importanti componenti come Marine Le Pen hanno fatto dell’opposizione “all’Europa di UvdL” uno dei cardini della loro campagna elettorale. A priori, la confusione sembra quindi totale. Peraltro gli sviluppi francesi farebbero inevitabilmente, in caso di vittoria di Marine Le Pen, della dialettica fra le due leader italiana e francese uno dei nodi importanti della dinamica europea.
Come giudicare Ursula?
A giudizio di molti, UvdL è stata una buona Presidente, sulla scia degli innovatori come Delors. Sembrerebbe quindi a priori essere destinata a vincere. Tuttavia il suo percorso non è sicuro e secondo alcuni accidentato. Si invoca a suo proposito la celebre formula del “candidato che entra nel Conclave Papa e ne esce Cardinale”. Le critiche che le sono rivolte riguardano allo stesso tempo il suo stile accentratore e alcune sue scelte politiche. Secondo i casi, UvdL è accusata di essere troppo “atlantista” e di essersi sbilanciata troppo in favore dell’Ucraina e di Israele, di essere l’autrice del (per alcuni famigerato) green deal ma recentemente anche di averlo tradito, di essere allo stesso tempo troppo lassista e troppo restrittiva in materia di immigrazione, di essere stata troppo tollerante, ma anche di aver mancato ai suoi doveri di imparzialità rispetto a governi potenzialmente illiberali come Orban o il Pis polacco. Orientarsi in queste critiche spesso contraddittorie non è semplice. I suoi difensori potrebbero però rispondere che la realtà della politica è quasi sempre determinata più dagli avvenimenti che dai programmi e pochi periodi sono stati più densi di imprevisti come quello che l’Europa ha vissuto di recente. Reagendo alle circostanze, UvdL ha agito politicamente e del resto i risultati non sono mancati.
Più o meno Europa?
Ci sono alcuni temi che hanno dominato la campagna, perfettamente coerenti con i dibattiti nazionali, ma che rischiano ora di costituire una trappola per chi deve decidere. Basandosi sul fatto che la prossima Commissione, a cominciare dal suo vertice dovrà ottenere il consenso della maggioranza assoluta del Pe, c’è chi sostiene che la sua nomina dovrà ancora una volta riflettere una maggioranza che vuole “più Europa”, cioè quella attuale di Popolari, Socialisti, Liberali e Verdi, ad esclusione dei sovranisti di destra e di sinistra che vogliono “meno Europa”. Maggioranza che, almeno guardando i numeri, è stata confermata dalle urne.
Il guaio è che questa contrapposizione netta fra “più o meno Europa” non corrisponde a ciò che l’Unione europea è realmente, a come funziona e a quali saranno le scelte a cui i responsabili saranno confrontati dopo le elezioni. Ci sono infatti nell’immaginario collettivo che riguarda l’Ue diversi errori di percezione. Nella realtà europea, il progresso verso più o meno Europa avviene caso per caso nella soluzione di problemi concreti. In questa prospettiva, i termini “più o meno Europa” assumono una notevole ambiguità e vengono spesso usati a sproposito. Proporre più o meno gradualismo nella messa in opera del green deal, oppure battersi per più o meno apertura in materia di immigrazione, non vuol dire volere “più o meno Europa”. In alcuni casi invece, i progressi verso “più Europa” sono principalmente ostacolati da dissensi fra governi tradizionalmente europeisti e convinti di esserlo. È il caso dell’aumento del bilancio dell’Ue o dell’emissione di debito comune. Ci sono però dei limiti che possono rendere la posizione dei sovranisti di destra o di sinistra incompatibile con l’appartenenza all’Ue. Un esempio è quello di chi chiede di limitare l’immigrazione chiudendo le frontiere interne all’Ue. Più in generale, si tratta del principio della supremazia del diritto europeo e del conseguente ruolo della Corte di giustizia e del rispetto delle regole fondamentali dello stato di diritto. Sono questioni esistenziali e non negoziabili che, come abbiamo visto per quanto riguarda la prima in occasione del percorso che condusse a Brexit, sono risolvibili solo con l’uscita dall’Ue. È interessante notare che tutte queste linee rosse sono presenti nel programma di Marine Le Pen. Tuttavia, Brexit sembra aver trasformato l’Ue in una nuova versione di Hotel California, la canzone degli Eagles. Neppure i più accesi sovranisti parlano più di uscire; sono quindi condannati a conciliare la loro retorica con la realtà. Ciò non li disturba più di tanto quando sono all’opposizione ma, come sembra aver capito Meloni, è più complicato quando si è al governo. Secondo la celebre formula di Mario Cuomo, “facciamo campagna in poesia, ma governiamo in prosa”.
La trappola delle maggioranze
Altrettanto fuorviante è un altro aspetto della narrativa che ha accompagnato la campagna elettorale: quello che riguarda le maggioranze. La questione è particolarmente insidiosa perché tocca la percezione istintiva che noi abbiamo di come funziona nelle nostre democrazie rappresentative il rapporto fra esecutivo e maggioranze parlamentari. Le istituzioni europee rispecchiano un modello diverso, anche se per questo non meno democratico. Esse sono sottoposte a un doppio vincolo di legittimità: attraverso i governi e che si esprime nel Consiglio, attraverso il corpo elettorale e che si esprime nel Pe. La nomina della Commissione è il momento in cui queste due legittimità si incontrano e devono essere conciliate. A questo si aggiunge una difficoltà supplementare: anche se il Pe è composto da gruppi parlamentari che si riconducono a “partiti europei”, essi sono per tutta una serie di ragioni storiche e culturali molto più deboli e meno disciplinati dei partiti che conosciamo a livello nazionale. La “coalizione tradizionalmente dominante” di cui ho parlato all’inizio non è mai stata una vera maggioranza di governo. Non c’è a Bruxelles o a Strasburgo alcun “patto di coalizione” che la vincola assieme alla Commissione a un determinato programma. C’è solo un necessario voto d’investitura che ha luogo sulla base delle dichiarazioni programmatiche del Presidente designato dal Consiglio europeo, ma in seguito molti provvedimenti legislativi saranno votati con maggioranze variabili. Infine, anche se il Pe dovrà votarne l’investitura finale, la Commissione nel suo insieme sarà per definizione composta da membri che rifletteranno le maggioranze di governo dei singoli paesi e non rispecchierà necessariamente la maggioranza parlamentare chiamata a votarla. È di conseguenza illusorio pretendere di riprodurre a Strasburgo le maggioranze che governano i singoli paesi. C’è invece una contraddizione fra due logiche: quella nazionale sempre più polarizzata, e quella europea che si ribella alle pretese di ingabbiarla nella contrapposizione destra-sinistra.
L’avvenire dei sovranisti
Sullo sfondo di tutto ciò c’è ovviamente l’interrogativo sul futuro della galassia populista e sovranista. Esso è legato in primo luogo alle profonde differenze che li dividono; partiti che hanno priorità spesso contraddittorie a parte il fatto di dichiarare di volere “meno Europa”. Primo fra tutti, l’atteggiamento verso la Russia e la guerra in Ucraina. In tutti i casi, la loro vera natura si manifesta solo quando in qualche modo riescono a partecipare al governo. È tuttavia un errore credere che, per riprendere la metafora di Cuomo, la prosa prevarrà in ogni caso alla prova della realtà. Nel caso di Giorgia Meloni la divaricazione fra poesia e prosa sull’Europa è particolarmente importante, ma solo perché sembra convinta che l’interesse nazionale italiano richiede di non entrare in conflitto aperto con il consenso politico dominante in Europa. Non è stato il caso del Pis polacco, alleato di Meloni nel Pe, che è rimasto in modo spesso conflittuale e ai margini della politica dell’Ue per tutta la durata del suo mandato di governo. Del resto, i sovranisti non conducono mai le danze, ma reagiscono alla musica dominante. Anche il pragmatismo di governi come quello italiano dipende in gran parte dalla solidità del consenso da parte dei governi più tradizionalmente europeisti e soprattutto francesi e tedeschi. La domanda che si pone spontanea all’osservatore straniero è quindi quale sarebbe la “prosa” di un governo a guida Rn in Francia? Purtroppo tutto fa pensare che sia difficile aspettarsi la replica del pragmatismo di Meloni o anche la relativa armonia che caratterizzò periodi di coabitazione con Mitterrand e Chirac. Almeno inizialmente e anche se frenato dai poteri costituzionali che restano nelle mani di Macron, un governo a guida Rn potrebbe spingere pericolosamente la Francia fino al limite di una crisi esistenziale con l’Ue. Le conseguenze inevitabili sarebbero per il paese ancora più gravi di quelle prodotte da Brexit per il Regno Unito. Tuttavia l’esplosione in volo del sovranismo francese potrebbe richiedere del tempo, come è stato il caso dei conservatori britannici. Speculare sul seguito è inutile ma l’Ue vivrebbe la più grave crisi dalla sua creazione. A quel punto, quale sarebbe la reazione di Meloni al cambiamento francese: cederebbe al richiamo dell’ideologia, o resterebbe ancorata all’interesse nazionale? La sua scelta potrebbe essere determinante per il futuro della costruzione europea. In queste condizioni e a prescindere dall’incognita francese, cosa possiamo aspettarci per le decisioni più imminenti? I cambiamenti intervenuti a livello europeo, ma soprattutto in alcuni paesi avranno un effetto sicuro su alcune scelte importanti che l’Ue dovrà effettuare. In primo luogo il futuro del green deal e la gestione dell’immigrazione. Almeno fino alle elezioni francesi, il sostegno all’Ucraina non dovrebbe essere messo in discussione; ma sul dopo aleggia un grande punto interrogativo.
Quindi cosa succederà?
La scadenza immediata è però quella del rinnovo dei vertici delle istituzioni. Per il momento, assistiamo a due narrative inconciliabili che riflettono l’errata percezione della natura delle istituzioni europee di cui ho parlato in precedenza. Meloni ci dice: non voglio governare con i socialisti. Altri dicono: non accetto una maggioranza di cui faccia parte Meloni. Il terremoto francese non consente tergiversazioni. Meloni e i suoi avversari ideologici si ritroveranno nello stesso Consiglio europeo; un luogo dove l’appartenenza alle varie famiglie politiche conta molto meno di ciò che i governi ritengono essere l’interesse nazionale. Basta un po’ di buonsenso per vedere che a Meloni non conviene isolarsi dalla designazione del prossimo vertice della Commissione che sarà inevitabilmente deciso con il concorso di governi a guida socialista. D’altro canto, visto anche il risultato italiano sarà molto difficile e sicuramente controproducente per gli altri cercare su questa questione un conflitto con il governo della terza economia dell’Ue, uscito peraltro più forte dalle elezioni. Poi sarà il momento del Pe. In quella sede non avrebbe molto senso per i parlamentari italiani espressione di FdI non votare la candidatura proposta con il concorso della loro leader. Allo stesso modo, non avrebbe senso per i parlamentari espressioni delle forze politiche tradizionalmente dominanti, rifiutarsi a priori di condividere il voto con il partito di Meloni.
Resta da vedere se il beneficiario di questo scenario sarà UvdL o qualcun altro. L’analisi che precede dovrebbe far concludere che non vi sono ragioni che ne impediscono la riconferma. È tuttavia possibile che le polemiche delle ultime settimane ne abbiano indebolito l’immagine al punto da diffondere la convinzione che bisogna cambiare cavallo. La politica funziona a volte così. La debolezza eventuale di UvdL non dipende dai sui meriti o dai suoi errori, ma dal fatto che non possiede una base politica propria ed è quindi in qualche modo “spendibile”. A questo punto si pone però la questione dell’alternativa, che è teoricamente di due tipi. Tenendo conto degli equilibri esistenti e delle priorità politiche dell’UE compresa la nuova centralità della sicurezza, è ragionevole pensare che la persona prescelta debba provenire da un paese che fa parte dell’euro e di preferenza anche della Nato, ma anche che appartiene alla famiglia del Ppe. Circolano a questo proposito alcuni nomi, come per esempio il Premier croato Andrej Plenković, quello greco Kyriacos Mitzotakis, o l’attuale Presidente maltese del Pe Roberta Metzola. Si tratta di personalità di elevata qualità, ma che hanno la caratteristica di provenire da paesi piuttosto marginali in termini geografici, economici e politici. La seconda opzione consisterebbe in una scelta totalmente fuori dagli schemi, per cui il nome di cui si parla sarebbe quello di Mario Draghi. Si tratta di una personalità di cui è impossibile negare la competenza, l’autorità e la capacità. È tuttavia un’ipotesi che si scontra con alcune difficoltà importanti. In definitiva, sembra che una sua candidatura potrebbe prendere corpo solo in caso di uno stallo prolungato non solo sul nome di UvdL, ma anche sulle altre possibili alternative.
Alla fine, vogliamo o no una Commissione forte?
Se però si prescinde da questa ipotesi per il momento alquanto teorica, il senso più evidente di un eventuale rifiuto della riconferma di UvdL è quello della scelta di una Commissione più debole di quella attuale e quindi meno propensa a interferire con le prerogative dei governi. Sarebbe una reazione in fondo quasi fisiologica dopo il mandato di una Commissione forte e quindi controversa. Successe anche quando si scelse di nominare Santer dopo Delors. Nella vita dell’Ue sono movimenti pendolari gestibili senza troppe difficoltà quando il contesto economico e geopolitico lo consente, ma soprattutto quando la debolezza della Commissione può essere compensata dalla forza e dalla coesione dei principali governi nazionali. In fondo era così quando finì il mandato di Delors; Francia, Germania, ma anche altri avevano governi abbastanza forti e stabili. Oggi alcuni governi escono indeboliti dal risultato elettorale, la situazione nei due principali paesi è particolarmente fragile, meno coesa e non si vedono altri attori che possono compensare queste debolezze. Una Commissione forte e autorevole sarebbe quindi di grande utilità. È bene che chi si riempie la bocca di “più Europa” nei discorsi pubblici, lo tenga presente. In particolare, il terremoto francese dovrebbe spingere verso una soluzione rapida. Uno stallo prolungato sulla nomina dei vertici delle istituzioni, soprattutto nel caso di una vittoria di Le Pen in Francia, potrebbe avere conseguenze veramente devastanti.