Quello del cambio dell’euro è un bel rompicapo. All’inizio dell’anno la previsione del rapporto euro-dollaro sembrava facile. Si ipotizzava che la Federal Reserve avrebbe aumentato i tassi di interesse di riferimento mentre quelli della Bce sarebbero rimasti fermi. Con tassi a breve più alti per gli americani l’euro avrebbe dovuto indebolirsi. In effetti, il differenziale tra i tassi guida delle politiche monetarie si è ampliato di cinquanta centesimi a favore degli americani, ma il cambio della moneta unica europea è andato esattamente nella direzione opposta a quanto previsto.
Dalla fine del 2016 all’indomani delle elezioni tedesche lo scorso 25 settembre l’euro ha guadagnato circa il 13 per cento nei confronti del dollaro Usa e oltre il 5 per cento rispetto al complesso delle diciannove valute relative ai principali partner commerciali dell’Unione monetaria. Al momento il tasso di cambio dell’euro non sembra quindi dipendere dall’andamento relativo delle politiche monetarie sulle due sponde dell’Atlantico.
Buono a sapersi, visto che l’orizzonte dei prossimi trimestri vede i tassi americani proseguire nel graduale cammino di rialzo connesso al rientro dal cosiddetto “Quantitative Easing”, mentre tempi decisamente più lunghi si profilano per eventuali aumenti dei saggi di riferimento in Europa. Il differenziale tra i tassi a breve aumenterà ancora, ma questo potrebbe non bastare a imprimere all’euro un’importante retromarcia.
La forza della valuta europea va giustificata con altri fattori. In primo luogo, come osservato nell’ultimo Bollettino Economico della Bce, c’è il miglioramento delle prospettive di crescita nell’area dell’euro. Nel secondo trimestre di quest’anno il tasso tendenziale di crescita del Pil dell’Eurozona è giunto ad eguagliare la progressione annua di sviluppo degli Stati Uniti collocandosi poco al di sopra dei due punti percentuali. Non è un accidente ciclico, bensì il frutto di una lunga marcia in atto da diciassette trimestri. È anche il risultato di un modello europeo di ripresa certamente più sobrio di quello americano, almeno nei termini dell’utilizzo del “deficit spending”.
Dietro la forza relativa dell’euro c’è una crescita che migliora con pochi debiti ulteriori. C’è anche il riflesso del cosiddetto “safe assets shortage”, della scarsità di attività finanziarie a basso rischio che sempre più condiziona gli equilibri economici e finanziari globali. In un mondo dove le popolazioni invecchiano, i debiti continuano a crescere e le nuove regolamentazioni finanziarie spingono nella direzione di standard più alti di stabilità, la domanda di attività sicure tende sistematicamente ad eccedere l’offerta.
È quella che Ricardo Caballero, eminente accademico del Massachusetts Institute of Technology, ed altri studiosi hanno di recente definito come “the safety trap”. La trappola della sicurezza è un potente elemento strutturale che da un lato spinge in basso i rendimenti delle attività finanziarie ritenute sicure e nel contempo determina l’apprezzamento delle valute dei paesi e delle aree che di tali attività sono emittenti.
L’euro si apprezza perché l’area della moneta unica viene considerata un approdo meno indebitato e relativamente più sicuro per gli investimenti finanziari globali. A sostegno di questa ipotesi si potrebbero addurre i dati recenti della Banca dei Regolamenti Internazionali che al primo trimestre di quest’anno attestano ad oltre 47 trilioni di dollari i debiti complessivi degli americani contro “appena” 31 trilioni di dollari di debiti per il complesso di famiglie, imprese e pubbliche amministrazioni dell’area euro.
Figlia di una ritrovata crescita economica e di una preferenza globale per la sicurezza, la forza dell’euro rischia di mutare da virtù a vizio, di diventare da mero rompicapo una pericolosa trappola. Un euro eccessivamente forte allontana il ritorno dell’inflazione su livelli conformi agli obiettivi di medio termine delle autorità monetarie. Se non bilanciato da miglioramenti importanti della produttività, un eccessivo apprezzamento del cambio danneggia la competitività delle nostre esportazioni.
Che fare? A riequilibrare i cambi della moneta unica non servono correzioni congiunturali di tipo monetario. Occorrerebbe invece una svolta strutturale sul piano del completamento dell’Unione economica e monetaria. Paradossalmente, per moderare la forza dell’euro e difendere la competitività delle esportazioni europee servirebbe un’iniezione importante di domanda interna, qualificata e lungimirante, mirata ad accrescere il potenziale di sviluppo dell’area monetaria attraverso un piano di investimenti in infrastrutture comuni.
Un piano tale da correggere l’eccesso di dipendenza dall’export del modello europeo di crescita sin qui sperimentato. Un piano da finanziare e portare avanti con risorse comuni e condivise, nel quadro di un progetto di creazione di una capacità di bilancio centrale dell’area dell’euro. Un euro troppo forte è il sintomo di un’Europa debole perché espressione di un’unione economica e monetaria ancora incompleta. Sta a noi prenderne atto per porvi un durevole rimedio. Anche dopo l’esito delle elezioni tedesche.