Saremo testarde e forse ingenue, ma non ci abitueremo mai all’idea che gli stupri di guerra siano un effetto collaterale “inevitabile” in ogni conflitto. Sta accadendo di nuovo e in Etiopia, in una guerra che ufficialmente non è neppure tale, visto che è stata definita dal premier, il Nobel per la pace Abiy Ahmed, “un’operazione di polizia”, e che, secondo il suo governo, è stata già vinta.
Sappiamo invece da testimonianze dirette – sebbene il Paese sia chiuso a ogni tipo di controllo, giornalistico e umanitario – che non solo la guerra non è finita, ma che i ribelli tigrini hanno cacciato da Makallè le forze federali e ora stanno sfondando nelle regioni limitrofe, Amhara e Afar.
Testimone d’eccezione delle violenze cui sono sottoposte le donne in Tigray è Amnesty International, che le ha svelate in un rapporto che porta la data dell’11 agosto 2021.
“Lo stupro e altre forme di violenza sessuale – ha dichiarato Agnés Callamard, segretaria generale di dell’organizzazione non governativa – sono stati usati come armi di guerra per infliggere danni fisici e psicologici alle donne e alle ragazze del Tigray. Centinaia di loro sono state sottoposte a trattamenti brutali allo scopo di degradarle e privarle della loro umanità. La gravità e la dimensione di questi reati sessuali sono spaventose, al punto da costituire crimini di guerra e forse anche crimini contro l’umanità”.
E per spiegare bene cosa voglia dire “stupro come arma di guerra”, il rapporto di Amnesty entra nel merito dei racconti di alcune delle superstiti riuscite a scappare nel vicino Sudan. Veniamo così a sapere che stupri di gruppo si sono protratti all’interno di basi militari per giorni se non per settimane; e, come se tutto ciò fosse poco, i criminali si sono divertiti a inserire nella vagina delle vittime chiodi, ghiaia, oggetti metallici e di plastica che hanno causato danni in alcuni casi irreversibili.
Chi è stato? Chi può arrivare a tanto?
Scrive Amnesty che ventotto sopravvissute hanno identificato le forze eritree come uniche responsabili del loro stupro. Mentre dodici, cinque delle quali in stato di gravidanza, hanno denunciato di essere state stuprate da soldati e miliziani di fronte ai loro familiari.
Per precisare: le “forze eritree” non dovrebbero nemmeno essere presenti in Etiopia. Il loro coinvolgimento è sempre stato negato dal governo di Adisa Abeba, ma in realtà tutti sanno che sono gli alleati occulti di Abiy; mentre “soldati e miliziani” sono l’esercito federale, coloro i quali dovrebbero difendere tutti gli etiopi, tigrini compresi, da ogni tipo di violenza e sopruso.
Che questi “effetti collaterali” siano la regola e non l’eccezione lo dimostrano altri dati forniti da Amnesty.
Secondo il rapporto, le strutture sanitarie del Tigray hanno registrato 1.288 casi di violenza di genere tra febbraio e aprile del 2021. Il solo ospedale di Adigrat ha calcolato 376 casi di stupro dall’inizio del conflitto al 9 giugno. E questi numeri non rappresentano la reale dimensione di questi crimini, dato che molte sopravvissute hanno detto ad Amnesty International di non essersi rivolte ad alcuna struttura sanitaria.
Se qualcuno avesse dubbi su questi dati, basti ricordare che l’organizzazione li raccoglie attraverso interviste ai diretti interessati: tra marzo e giugno del 2021 sono state 63 le donne e ragazze sopravvissute allo stupro che hanno denunciato, 15 di persona in Sudan, dove si erano rifugiate, e altre 48 da remoto attraverso collegamenti protetti. Oltre a loro, sono stati intervistati operatori sanitari e personale umanitario che stavano prestando cure alle sopravvissute nelle città di Shire e Adigrat e nei campi per rifugiati in Sudan.
Insomma, non ci sono alibi per chi nella comunità internazionale continua a far finta di niente, a girare il viso da un’altra parte, forse in imbarazzo rispetto all’apertura di credito fatta troppo presto al premier Abiy, eletto con l’ambizione di riunire tutte le etnie in un unico Paese, e che anche per questo si era meritato il Nobel per la Pace, ma che ha oggettivamente fallito. Il governo italiano non fa eccezione.
Che cosa fare allora?
Amnesty chiede al governo dell’Etiopia “di consentire l’ingresso nel Tigray alla Commissione d’inchiesta della Commissione africana per i diritti umani e dei popoli e sollecitiamo il segretario generale delle Nazioni Unite a inviare nella regione il Team di esperti sulla violenza sessuale nei conflitti”.
L’Italia potrebbe sostenere l’organizzazione nella richiesta, per esempio; oltre a immaginare un nuovo tipo di rapporto, meno accondiscendente, con un governo che permette queste aberrazioni. Se non ora, quando?