Niente Gregory Peck e pellicole romantiche, ma è certamente una visita in bianco e nero quella del presidente turco Erdogan in una Roma blindata. Per chi si fosse dimenticato che al rientro da Parigi in Turchia l’8 Gennaio è stato prorogato per la sesta volta lo stato di emergenza a ben 18 mesi dal fallito golpe, occorre ricordare il bilancio. Il 20 gennaio Erdogan ha inviato il suo esercito nell’area del nordovest della Siria, nel distretto di Afrin controllato dai curdi, con lo scopo ufficiale di combattere contro le forze dell’YPG (Unità di Protezione del Popolo) da lui considerate terroristi alla stregua del PKK, nonostante la segreteria generale dell’Onu parli di 15mila civili in fuga e l’Osservatorio siriano dei diritti umani abbia registrato già nella prima settimana di scontri 67 civili morti e 91 combattenti curdi.
Il 30 gennaio, mentre a Soci in Russia al tavolo della Conferenza di Pace per la Siria venivano chieste nuove elezioni democratiche, Erdogan ha avviato un’offensiva aerea in appoggio a quella di terra. Il nervosismo nell’Unione Europea si è diffuso dopo le dure parole di Macron e l’imbarazzo della Merkel per l’utilizzo di carri armati di produzione tedesca sul territorio di Afrin, in una missione che viola per molti il diritto internazionale. La risposta turca è tornata come un boomerang contro gli stessi tedeschi, “accusati” di aver venduto fucili e missili ai peshmerga curdi per combattere sul campo l’Isis. Una bella grana questa per il pane dei giuristi della Nato, ma soprattutto per la “nuova coalizione” sul quale si inserisce il neo-insediato Governo tedesco.
Al fianco dell’esercito turco vi sono circa 25mila mercenari dell’Esercito siriano libero che si troveranno di fronte oltre all’Ypg anche una coalizione di Forze democratiche siriane, anch’esse precedentemente sostenute dagli Usa in funzione anti Is.
Per un Paese dove pare non vi siano alternative ad un acceso nazionalismo e ad una dittatura che non ama il dissenso e lo combatte giornalmente, qualsiasi offerta di dialogo di pace o negoziale del quale Erdogan voglia farsi paladino in queste sue missioni risulta svuotato di credibilità agli occhi della stessa Nato della quale la Turchia fa parte. Con 50 mila arresti e 110mila dipendenti pubblici che hanno perso il loro lavoro perché secondo il governo turco erano legati al movimento del dissidente Gulen non si può certo parlare con tranquillità di normalizzazione democratica o di capitoli comunitari, come ricordato dai francesi.
Ed una visita così puntuale in piena campagna elettorale fa comprendere come il tentativo di giochi di equilibrio di un regime vicino a Russia ed Iran vedano coinvolto un Paese come il nostro vicino a nuove importanti elezioni la cui politica estera è annebbiata nell’impotenza europea, dimostrata in maniera evidente in questo conflitto siriano per il quale non è stato fatto assolutamente nulla, tranne che prendere nota di un bilancio di civili morti abnorme, oltre 500mila morti, e di un irrobustimento dei movimenti migratori ulteriore.
Nel silenzio dei giornali italiani sull’offensiva denominata anacronisticamente “ramoscello d’ulivo” e il nulla di fatto il 22 gennaio al Consiglio di sicurezza dell’Onu, è chiara la mancata accettazione da parte di Erdogan di qualsivoglia “fascia di sicurezza” vicina ai confini turco-siriani, annunciata dagli Usa il 14 gennaio, che non sia sotto il totale controllo dei turchi stessi. Inoltre, il rischio di un ampliamento dell’operazione di invasione turca è molto elevato, nonostante Assad abbia dichiarato di considerarla una violazione della sovranità nazionale.
Tutti vogliono un ruolo nella futura Siria: russi e americani in testa, e l’abile mossa del Sultano nel cuore di Roma che rimette in gioco la questione di Gerusalemme sul piatto delle future alleanze post conflitto non è da sottovalutare. Ma come dimostra il processo contro la scrittrice Elif Safak per il suo best-seller “La Bastarda di Istanbul”, l’Unione Europea dovrebbe riflettere sui passi indietro fatti da un Paese così straordinario, ponte tra l’Europa ed il Medio Oriente, a causa del regime di Erdogan. Oltre ad arresti ed allontanamento dal posto di lavoro in massa oltre 160 giornali son stati chiusi, circa 200 giornalisti incarcerati, quattromila docenti espulsi solo dalle università per non parlare di un sistema di istruzione radicalmente modificato e di un regresso marcato nei diritti sulle parità di genere. Forse il giro in moto per il centro di Roma per questa volta potremo anche evitarlo.