In questi ultimi mesi al Pd è successo di tutto: il partito di Bersani ha perso le elezioni pur arrivando primo di un soffio; non è riuscito a fare l’annunciato governo di cambiamento; ha dato un pessimo spettacolo nelle elezioni del presidente della Repubblica (basta pensare ai 101 franchi tiratori che hanno fatto cadere la candidatura di Prodi, acclamata qualche ora prima dal plenum dei suoi grandi elettori); ha rotto con l’alleato della campagna elettorale (Sel), grazie al quale si era aggiudicato il premio di maggioranza alla Camera; al tempo stesso il segretario si è dimesso, dopo che la generosità istituzionale del presidente della Repubblica, quasi costretto alla rielezione, aveva evitato il peggio alle istituzioni e al Paese. Infine questo partito, in evidente e profonda crisi, si trova ora a guidare con Enrico Letta un governo di grandi intese, al quale partecipano anche ministri del Pdl. Soluzione questa che era stata vigorosamente esclusa sia in campagna elettorale che dopo.
Se questo è il riassunto delle puntate precedenti si capisce bene quanto difficile sia l’appuntamento dell’Assemblea nazionale di sabato 11 maggio chiamata a dare almeno un assetto provvisorio al vertice del partito in vista di un congresso che si presenta tutt’altro che facile. Naturalmente tutto questo avviene in un clima arroventato con alcune sedi del partito occupate e con le dure contestazioni dei circoli e dei militanti nei confronti di quel che resta del gruppo dirigente. Non è un caso che in questi giorni si sono rincorse le più varie soluzioni per la segreteria o almeno la reggenza del partito. Soluzioni che non sono mai riuscite a prendere robusta consistenza. Probabilmente si arriverà ad una scelta di garanzia che alla fine dovrebbe almeno consentire l’avvio delle procedure congressuali.
E’ in questo quadro che Enrico Letta, finora vicesegretario del Pd e principale collaboratore del segretario dimissionario Bersani, si trova a governare uno dei più anomalo dei governi del pur complicato dopoguerra italiano. Un governo che è difficile persino definire. E che certamente non è e non può essere un governo di “pacificazione nazionale”, ma che è certamente un governo di necessità.
Uno stato, quello di necessità, che è stato riconosciuto anche dal Pd, il quale se ne è assunto la responsabilità anche a costo di affrontare la ragionevole e prevedibile e forte protesta dei militanti. Il problema è: può, in nome dell’interesse generale del Paese, il Pd, questo Pd in profonda crisi, reggere questo pesante macigno politico? Penso che sia molto difficile che ci riesca, ma, a questo punto ha il dovere di provarci. Glielo impone la storia e l’identità della sinistra italiana (Pci compreso).
Come ha recentemente ricordato Eugenio Scalfari Togliatti, appena rientrato a Salerno si trovò a spiegare allo stato maggiore del partito, che occorreva sostenere nientemeno che il governo Badoglio, anche al netto della non ancora risolta questione istituzionale. Prima di tutto veniva l’Italia da ricostruire. Ad un altro grande dirigente del Pci Giorgio Amendola, gli operai chiesero una volta quale sarebbe stata la contropartita da esigere per l’impegno delle classi lavoratrici per la riduzione dell’inflazione. Lui rispose che la contropartita era “il calo dell’inflazione”. Anche lì in primo piano c’era l’interesse nazionale. Infine gli anni di piombo, quelli del terrorismo e delle Brigate rosse: ancora una volta i la sinistra il Pci e la Cgil, pagarono un alto costo, anche di sangue, per aver messo al primo posto le istituzioni democratiche e la loro difesa.
Come dire che la sinistra italiana è sempre riuscita (anche dall’opposizione) a mettere in primo piano l’interesse generale del Paese. E’ così anche questa volta con il governo di necessità presieduto da Enrico Letta? Rispondere affermativamente non è facile. Riprendiamo il riferimento al governo Badoglio e ai governi ciellenisti. In quelle compagini c’erano anche i partiti di destra: i liberali, magari i monarchici. Ma i responsabili maggiori della catastrofe, quelli che avevano voluto seguire fino all’ultimo l’avventura mussoliniana, non c’erano. Oggi invece nel governo Letta i berlusconiani (quelli che il Pd considera i principali responsabili di un lungo periodo di crisi democratica) ci sono. E c’è soprattutto ingombrante presenza, a latere, del loro capo. Il quale certamente non facilita le cose presentandosi come il principale sostenitore e beneficiario politico del governo di larghe intese.
Se si scorrono le protese che sul web si succedono sui siti vicini al Pd si coglie questa sintesi politica: un governo con Berlusconi per noi è anche peggio di un governo di Berlusconi. Giudizio che certamente non facilita il già difficile avvio del governo Letta, ma che trova una facile spiegazione proprio nell’atteggiamento di chi mentre convoca manifestazioni contro i giudici invade le televisioni per indossare i panni dello statista (portati peraltro malissimo), concedendo poi benevolmente al governo di andare avanti, nonostante la cosiddetta persecuzione giudiziaria, ribadita a suo giudizio, da ingiuste sentenze.
Per il Pd che già ha enormi problemi interni, reggere questa pressione, anche al netto degli indigesti rospi dovuti ingoiare nelle commissioni parlamentari (Nitto Palma, ma soprattutto Formigoni) sarà particolarmente difficile. Toccherà a Letta (le cui scelte sui ministri sono apparse molto oculate) cercare di tenere in piedi la baracca. E non è un caso che il presidente del Consiglio abbia manifestato l’intenzione di partecipare all’assemblea del suo partito.
Riuscirà il Pd a risolvere la sua crisi interna e garantire un governo di necessità al Paese? I pronostici non sono favorevoli, ma le due questioni sono strettamente connesse, e si comincia proprio dall’assemblea nazionale nella quale Guglielmo Epifani, in base a un accordo dell’ultima ora, diventerà segretario traghettatore fino al Congresso d’autunno.