Il 24° episodio della serie degli autori best seller italiani tratta di uno dei principali best seller del nostro paese al momento della sua nascita, cioè circa 160 anni fa. Non si tratta tanto di un romanzo quanto di una vera e propria storia autobiografica, una storia dolorosa di una donna: Enrichetta Caracciolo.
Cosa allora se non impossibile, sicuramente assai rara, se non addirittura unica. E, fatto ancor più eclatante, di una donna che era una suora, e una suora di clausura. Nel libro l’autrice raccontava le sottili perfidie e gli abominevoli inganni cui era stata sottoposta per indurla alla monacazione, e poi per evitare di uscirne e di riacquistare l’agognata libertà.
Una storia insomma che avrebbe anche oggi più di un motivo di attrazione, anche per le vicende che seguirono poi all’uscita del libro, o che da esso furono determinate.
Il libro che dette alle stampe si intitolava I misteri del chiostro napoletano, ed uscì nel 1864 presso il fiorentino Barbera, uno dei più importanti editori del periodo.
Il romanzo ottenne subito uno straordinario successo, fatto di numerose ristampe, in un periodo in cui il mercato editoriale era estremamente ridotto e l’analfabetismo dilagava a percentuali inimmaginabili, tanto che riuscire a piazzare 1.000 copie di un libro era ritenuto dagli addetti ai lavori già un buon risultato.
In pochi anni l’opera si affermò come uno dei principali best seller della neo-nata nazione, e andò a battersi alla pari con I miei ricordi di Massimo d’Azeglio, considerato in quel periodo al top dell’editoria. E dire che l’accorto Barbera aveva acquisito il testo dalla Caracciolo in cessione perpetua per la cifra di 1.400 lire, nettamente inferiore a quella versata due anni dopo al D’Azeglio per il suo capolavoro: 10.000 lire!
Il romanzo dette non poche soddisfazioni all’editore. Nelle sue memorie, nel 1878 Gaspero Barbera scriveva di non ricordare nemmeno più quante edizioni ne avesse tirate, tanto grande era stato il successo del libro.
Dieci anni dopo la sua uscita, nel 1874, I misteri del chiostro napoletano era già all’ottava edizione, per un totale di circa 20.000 copie. In seguito il libro sarebbe stato ristampato in tante altre edizioni, alcune legali, altre abusive.
Sull’onda del successo che stava riscuotendo in Italia, il libro fu poi tradotto anche nelle principali lingue europee, compreso il polacco, e piacque a molti intellettuali, fra cui il Settembrini e il Manzoni.
Quest’ultimo, infatti, nell’opera della Caracciolo ritrovava una notevole somiglianza con la vicenda della “sua” monaca di Monza. Dostoevskij, a fine anni sessanta ospite a Firenze, trascriveva nei suoi taccuini i dati significativi del libro e della sua autrice.
La vita
Enrichetta Caracciolo era nata a Napoli nel 1821; era la figlia di don Fabio Caracciolo, principe di Forino, e di una gentildonna palermitana, Teresa Cutelli. La morte precoce del padre spinse la madre, desiderosa di risposarsi e di liberarsi dei gravosi impegni familiari, in quanto Enrichetta aveva altre sei sorelle, a mettere in convento la figlia, secondo un uso abbastanza consolidato. Era infatti noto come nelle famiglie nobili, alle femmine, eccettuata la primogenita, fosse talvolta riservato quel destino.
Nel 1841, a 20 anni, la giovane ragazza pronunciava i voti, dopo un adeguato periodo di “noviziato”. Ma la mancanza di vocazione, il carattere indipendente, la raffinata educazione ricevuta in famiglia, che le aveva assicurato lo studio del pianoforte e la lettura di testi “laici” di sicuro spessore culturale, si scontravano con l’ignoranza delle consorelle, per lo più analfabete, che subdolamente si compiacevano a che altre avessero a subire la sorte che era stata loro riservata: una specie di squallido mal comune è mezzo gaudio.
O quanto meno un modo per rafforzarsi nella scelta fatta, o subita o imposta, se anche altre, di condizione assai elevata, intraprendevano lo stesso percorso. Pertanto, più una cercava di rivendicare la propria libertà e di uscire dal cappio che ne soffocava l’esistenza, più forte era il desiderio di non consentirlo all’anima ribelle.
La dura lotta per la libertà
Non potendo né accettare né resistere alla vita in convento e al clima di sottili perfidie e di inaudite violenze psicologiche, Enrichetta arrivò a chiedere nel 1846, cinque anni dopo la monacazione, lo scioglimento dai sacri voti. Si rivolse allora a Pio IX, appena asceso al soglio di Pietro, nella speranza che la sua fama di papa liberale, che nei primi anni di pontificato fu davvero notevole, le concedesse la possibilità di riacquistare la condizione laicale.
Ma non ebbe risposta favorevole, anche per la dura opposizione del giovane arcivescovo di Napoli Sisto Riario Sforza, all’epoca appena trentaseienne, e in quello stesso anno nominato anche cardinale, che non voleva assolutamente mostrare alcun cedimento alle richieste della povera Caracciolo.
Contro di lei anzi il prelato condusse una dura ed estenuante battaglia, con un accanimento mai visto, arrivando a gesti assai duri, talvolta contro il parere dello stesso pontefice Pio IX, che peraltro lo considerava il suo braccio destro.
Il cardinale Riario Sforza
Va comunque ricordato, a onor del vero, che Riario Sforza fu per altri versi figura di primissimo piano nella Chiesa partenopea e nazionale. Si prodigò all’inverosimile durante le calamità che colpirono la città, fra le quali tre eruzioni del Vesuvio e quattro epidemie di colera, profondendovi anche il proprio patrimonio familiare, dato che anch’egli era di nobile e facoltosa famiglia.
Fu attentissimo e ligio alla sua missione, sempre pronto ad accogliere, aiutare e confortare tutti, grande esempio di carità cristiana, consigliere e confidente di pontefici. Si dice addirittura che Leone XIII, succeduto a Pio IX nel 1878, un anno esatto dopo la morte di Riario Sforza, avesse dichiarato che se il cardinale napoletano fosse stato in vita, non sarebbe stato lui il pontefice. Le numerose benemerenze hanno valso a Riario Sforza anche la dichiarazione di “Venerabile”, primo passo verso la “Santità”, decisa da papa Ratzinger nel 2012.
Ma con Enrichetta Caracciolo lo scontro fu di una durezza inaudita. Lasciamo agli storici il compito di ragguagliarci in materia.
La partecipazione ai moti del Risorgimento
Durante i moti del ’48 Enrichetta assunse un deciso atteggiamento patriottico, in un ambiente dove le idee liberali erano a dir poco bandite e venivano viste come manifestazione del demonio. Leggeva i giornali risorgimentali e cercava di introdurli nel monastero di San Gregorio Armeno, dove era “reclusa”. Scrisse anche delle memorie e delle considerazioni sui tempi e sulla vita religiosa, che però distrusse per paura di ritorsioni alla famiglia.
Nel 1849 ottenne di trasferirsi al conservatorio di Costantinopoli, uno dei quartieri più animati di Napoli; ma anche qui fu soggetta a pesanti restrizioni, come il divieto di suonare arie di Rossini al pianoforte o di leggere libri che non fossero le vite dei santi o testi a carattere devozionale. Le fu impedito anche di tenere un diario e perfino di scrivere lettere.
Poco dopo, riappacificatasi con la madre, che si era nel frattempo pentita di averla indotta a farsi suora, ottenne di lasciare temporaneamente il convento per poter curare “i disturbi psichici” che l’affliggevano, sempre però alternando periodi di semilibertà a rientri in convento.
Negli anni successivi fu nuovamente soggetta a pesanti restrizioni da parte della gerarchia ecclesiastica e della polizia, tanto che le fu perfino impedito di assistere la madre morente. Sottoposta a un regime durissimo, compreso un anno intero di isolamento, tentò il suicidio.
Alla fine poté ottenere una maggiore libertà, giustificata dalla necessità di curarsi, pur rimanendo soggetta a controlli anche delle forze di polizia, per fuggire i quali era costretta a cambiare continuamente casa e personale di servizio. In tre anni cambiò residenza 18 volte.
L’uscita dalla vita religiosa
Solo nel 1860 con l’arrivo di Garibaldi a Napoli, che Enrichetta incontrò di persona nella cattedrale della città, alla messa di ringraziamento per l’esito felice della spedizione dei mille, poté riacquistare la condizione laicale, deponendo sull’altare il velo nero di monaca. Aveva 40 anni, metà dei quali passati in convento. E pochi mesi dopo si sposò con un patriota napoletano di lontane ascendenze tedesche.
Ma le sue disavventure non erano finite. La pubblicazione del libro, oltre al grande successo che incontrò presso i lettori, le aveva provocato la scomunica della Chiesa, per cui le benemerenze acquisite in ambito politico, civile e patriottico e le promesse di parziale risarcimento per le umiliazioni subite, come la nomina a ispettrice agli educandati di Napoli, non le furono poi mai concesse.
Negli anni successivi scrisse altri due testi, sempre ispirati alla vicenda che l’aveva vista infelice protagonista, si dedicò al giornalismo, e contribuì non poco alla causa dell’emancipazione femminile. Morì ottantenne nel 1901, quasi dimenticata da tutti.
I misteri del chiostro napoletano
I misteri del chiostro napoletano si possono collocare come punto d’incontro di due filoni allora assai in voga: il primo è quello che potremmo definire “dei misteri”, iniziato nel 1842 con I misteri di Parigi di E. Sue, che aveva ottenuto un enorme successo e aveva creato un genere, tanto da essere ripreso in Italia da numerosi imitatori, fra cui anche il Collodi, autore nel 1857 de I Misteri di Firenze. Fra i tanti che andarono a scandagliare e rivelare i misteri di altre città d’Italia, l’opera piú nota sarà poi I misteri di Napoli di Francesco Mastriani uscita nel 1875.
Il secondo filone è il motivo della monacazione forzata, il cui modello originario risale all’episodio della monaca di Monza del Manzoni, e prima ancora a La religieuse di Diderot, pubblicata a fine Settecento. Questo filone aveva poi conosciuto un seguito anche ne La monaca di Monza di Giovanni Rosini del 1829, ai suoi tempi molto considerato, e, quaranta anni dopo sarebbe stato ripreso dal Verga nella celebre Storia di una capinera.
Per dare ai gentili lettori un’idea del racconto, vi presentiamo il momento centrale dell’intera vicenda: l’ingresso di Enrichetta in convento, che segna l’inizio della tragica odissea.
Il cuore mi batteva forte, il capo mi girava: credeva di venir meno. Chiesi d’una seggiola, tersi colla pezzuola il freddo sudore che mi colava dalla fronte, e con voce di agonizzante risposi:
«Sì».
Il dado era tratto… fatale Sì!
Non appena ebbi pronunziata l’affermativa, uno scoppio d’acclamazioni e di festose grida mi percosse l’udito. Le monache tutte proruppero di comune accordo in proteste, tendenti ad assodare, che la mia conversione era effetto manifesto del campanello di san Benedetto, da me stessa inteso qualche ora prima della mia uscita; perloché con tutta fretta mandarono uno stuolo di converse sul campanile per suonare a festa.
Nell’udire a quell’ora insolita le campane i vicini fecero domandare che cosa fosse successo alle monache; e queste divulgarono largamente che la nipote della badessa erasi per superiore ispirazione dichiarata religiosa. Perduta d’animo, confusa, dalle inaspettate combinazioni soperchiata, io tremava a guisa di foglia cadente al vento d’autunno.
Dato pertanto l’impegno di chiudermi il giorno appresso, me ne tornai in casa della sorella, immersa nella piú cupa costernazione; essa pure mostravasi molto dolente dell’andamento che l’affare avea preso all’improvviso.
Il suono funesto delle campane rintronò al mio orecchio per tutta la notte: mi pentii cento volte di aver detto quel sì, ed accusai me stessa di fiacchezza.
Ma guai a chi è trascinato dalla fatalità!… Alle dieci della mattina mi avviava al convento, alle porte del quale parecchie persone famigliari mi attendevano.
Fui ricevuta con nuova scampanata a festa, e collo sparo dei mortaletti, alla cui esplosione una folla immensa di gente si ragunò.
Per tutta quella giornata d’altro non si ragionò, che della mia prossima vestizione. Il canonico gongolava di gioia, le suore ne esultavano, era un andirivieni continuo nella chiesa e di preti e di confessori. Il cardinale Caracciolo, e il vicario vennero pur essi a congratularsi meco della mia risoluzione, e la sera un lauto trattamento di gelati e di pasticceria fu offerto dalla mia zia alla comunità. Insomma, per vincolarmi ne’ lacci, dov’era incappata, in modo da non potermene piú disimpegnare, i preti e le suore strombazzarono il prodigio di san Benedetto e l’atto della mia conversione con ogni mezzo possibile di pubblicità. […] Spuntò il critico giorno. Una folla di parenti e d’amici affluì fin dal mattino nella sala di mio cognato: gli uomini discorrevano allegramente; le donne chiassavano, le zittelle si erano impadronite del piano-forte; io sola era mesta con in bocca l’amarezza dell’assenzio.
A dieci ore fui chiamata all’allestimento. M’inghirlandarono di fiori gemmati, a guisa di sposa: mi fecero indossare un abito sontuoso di velo bianco, ed al capo mi attaccarono un altro velo dello stesso colore, scendente sino ai piedi.
Quattro dame assistettero all’acconciatura, due altre dovevano accompagnarmi: la duchessa di Corigliano e la principessa di Castagnetto. Conformandosi alla consuetudine, queste dame cominciarono dal condurmi a diversi monasteri, onde farmi vedere dalle altre monache: le seguitai automaticamente, muta d’accento, col pensiero assente. Mi scossi solo, allorché seduta nella porteria del monastero di Santa Patrizia, accanto all’altra zia Benedettina, vidi entrare frettolosi ed andanti due chierici, che gridarono:
«Ma, signore, venite presto a San Gregorio Armeno! II pontificale è finito: non si attende che la monaca».
Una pugnalata al cuore non ha effetto diverso da quello che provai da tale chiamata. Un tremito generale s’impossessò delle mie membra, e divenni livida al par di cadavere.
La prima ad alzarsi fu la duchessa Corigliano. Compressi la mano sul cuore, mi levai a stento, e baciai quella vecchia zia, che mi disse lagrimando:
«È questo l’ultimo nostro bacio… Addio, figlia mia! ci rivedremo in cielo». La principessa, venutami piú d’appresso, mi guardò in volto. «Fermatevi, duchessa», disse alla Corigliano: «non vedete che la monachella si sviene?»