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Energia e trasporti sono un lusso per Finmeccanica: il futuro delle tre Ansaldo è fuori

I verdetti delle agenzie di rating, società piene di conflitti di interesse e spesso dotate di scarsa lungimiranza, vanno sempre presi con le pinze. Ma il downgrading di Finmeccanica deciso negli ultimi giorni da Moody’s e preceduto da quello di Standard & Poor’s e Fitch, che hanno portato il rating del gruppo italiano al primo livello junk (titolo parzialmente speculativo), è più di un campanello d’allarme. Le motivazioni parlano da sole: Moody’s riconosce che, sotto la guida del ceo Alessandro Pansa (ora in coppia con il presidente Gianni De Gennaro), Finmeccanica ha compiuto passi avanti nel rilancio operativo ma segnala con preoccupazione i ritardi nelle dismissioni di Ansaldo Energia e Ansaldo Sts e soprattutto il buco nero di AnsaldoBreda.

Pansa, che viene dalla finanza ma che ormai conosce come le sue tasche l’industria manifatturiera a tecnologia avanzata di Finmeccanica, queste cose le sa benissimo ed è determinato a farle. Ma siamo in Italia e vincere le resistenze  politiche, localistiche e sindacali è difficile (malgrado Finmeccanica abbia inaugurato un nuovo modello di relazioni industriali che ha di recente dato i suoi frutti nella vertenza Selex, dove 2.500 esuberi sono stati consensualmente gestiti senza un’ora di sciopero). Ora per Ansaldo Energia – malgrado le impennate dei genovesi, in parte controbilanciate negli ultimi giorni da segnali di ragionevolezza affiorati nel maggior quotidiano locale – i giochi sono praticamente fatti e, prima o poi, dovrebbero portare all’ingresso nel capitale dei coreani di Doosen.

Per Ansaldo STS, società quotata in Borsa e vero gioiellino tecnologico leader nell’Alta Velocità, i colloqui per la cessione a Hitachi o, più probabilmente a General Electric, sono aperti da tempo. Spiace cedere STS ma ricordiamoci di due fatti: 1) Ge è proprio la multinazionale che ha al suo attivo la valorizzazione del Nuovo Pignone, la società fiorentina che tutti temevano venisse colonizzata e che invece ha conosciuto un poderoso rilancio quando l’Eni, che non era più in grado di sostenerla, la cedette agli americani; 2) Ansaldo STS è già adesso fuori dal core business di Finmeccanica, che rischia di frenarne lo sviluppo per la necessità di concentrarsi su difesa, sicurezza e aerospazio.

Ma il vero punto critico di Finmeccanica è AnsaldoBreda, le cui difficoltà, non per caso, vengono considerate determinanti da Moody’s. AnsaldoBreda produce tram, metropolitane, treni regionali e ad alta velocità in quattro siti (Pistoia, Napoli, Reggio Calabria e Palermo) con presenze anche in Spagna e negli Usa, impiega 2.250 addetti e ha una lunga storia industriale. Non si discutono le sue competenze tecnologiche ma sua evidente difficoltà a tenere il passo di fronte a una concorrenza internazionale sempre più aggressiva che negli ultimi anni le ha procurato perdite ingenti. Malgrado gli sforzi del nuovo management la riorganizzazione aziendale in corso non basta a garantire ad AnsaldoBreda quel recupero di efficienza e di competitività che sole ridarebbero e renderebbero sostenibile l’equilibrio dei conti della società, che oggi è lungi dall’avvicinarsi.

Allo stato AnsaldoBreda ha almeno sei handicap che ne pregiudicano fortemente il futuro: 1) la frammentazione della produzione su 4 stabilimenti troppo distanti tra loro; 2) l’eccesso di capacità e manodopera modulate su volumi produttivi attualmente chimerici; 3) la bassa produttività della manodopera diretta; 4) l’eccesso di personale amministrativo; 5) la frammentazione del parco fornitori; 6) l’assenza di ordini stabili dal cliente nazionale e di conseguenza l’assenza un consolidato catalogo di prodotti.

In una situazione del genere AnsaldoBreda non ha un futuro sicuro se resta così com’è. La sua salvezza e la sua valorizzazione sono fuori dal perimetro Finmeccanica e possibilmente in una combinazione di dismissioni che la leghi ad Ansaldo STS. Se resterà in vita e se avrà il tempo di presentare il nuovo piano di privatizzazioni sarebbe ora che il Governo battesse un colpo anche sulle partecipazioni pubbliche di secondo livello e, nel caso in questione, liberasse il campo dagli ostacoli che frenano il pieno rilancio di Finmeccanica e che impediscono l’uscita dell’energia e dei trasporti dal suo raggio d’azione. Se si vende bene, le privatizzazioni non servono solo a fare cassa ma anche a lanciare un segnale ai mercati finanziari che l’Italia non è sempre ingessata e soprattutto a garantire un futuro migliore a società che possono essere valorizzate ma  in un diverso contesto competitivo. Nuovo Pignone insegna.

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