Emmanuel Macron lo aveva promesso e lo farà: la soppressione, o meglio, la trasformazione dell’ENA, il tempio della formazione della classe dirigente francese dai tempi di De Gaulle ai giorni nostri, avverrà con un progetto di legge che sarà tra breve approvato dal Consiglio dei ministri ed entro il 7 giugno sarà trasformato in legge dal Parlamento. Altri Presidenti prima di lui (da Mitterrand a Chirac e a Sarkozy) lo avevano annunciato, ma nessuno ci era riuscito.
Nel 2019, di fronte alla protesta dei Gilets jaunes che accusavano lo Stato di essere lontano e insensibile ai bisogni del popolo, di essere guidato da una classe dirigente chiusa, autoreferenziale e impermeabile alle richieste che venivano dai territori, dai piccoli imprenditori e dai ceti più colpiti dalla crisi e dagli effetti della transizione economica e digitale, Macron aveva riconosciuto questi limiti dell’amministrazione pubblica francese e ne aveva imputato, almeno in parte, la responsabilità ai criteri di selezione e formazione dell’alta dirigenza pubblica.
Questa convinzione si era rafforzata nel corso del “Gran debat public” lanciato da Macron per riconnettere le istituzioni con il Paese e che, pur tra molte polemiche, aveva comunque stimolato più di diecimila riunioni a livello locale, molte delle quali partecipate dallo stesso Presidente della Repubblica, e due milioni di contributi e suggerimenti sul sito dedicato organizzato dal Governo francese. La Francia, secondo Macron, aveva bisogno di un grande processo di rigenerazione, doveva rimettere in moto l’ascensore sociale, offrire ai giovani “egalitè des chances”, attraverso una profonda operazione di rinnovamento che doveva partire dalla disincrostazione del sistema di potere chiuso – pubblico e privato –, che l’ENA aveva creato e plasmato e di cui continuava a rappresentare il simbolo e il principale artefice. Gli enarchiste erano la casta contro cui si scagliavano gli esclusi.
L’ENA, creata da De Gaulle nel 1947, si era organizzata sulla base del disegno definito dalla Commissione presieduta da Thorez, vicesegretario del Partito comunista francese e – ultimo frutto del Front National che aveva guidato la Resistenza francese ai tedeschi – era stata costruita su una visione elitista e centralista condivisa dalla cultura francese, sia gollista che comunista. Una cultura che oggi, di fronte al multiculturalismo, all’emergere di un ruolo politico più forte delle amministrazioni locali, ai nuovi sistemi di comunicazione e di condivisione dell’azione pubblica non è più in grado di dare risposte efficaci alle sfide che le istituzioni si trovano ad affrontare.
Nei primi decenni del dopoguerra, l’ENA era stata una vera fucina di cervelli per la ricostruzione del Paese: ne erano usciti ministri, Presidenti della Repubblica, magistrati, alti dirigenti dello Stato, banchieri, manager di multinazionali e di grandi imprese, conservatori e socialisti che, con un sistema di porte girevoli, passavano dal pubblico al privato, anche più volte nell’arco di una carriera. Questo meccanismo, col tempo, ha fatto del tutto perdere la percezione delle differenze culturali e di visione e della natura degli interessi rappresentati da coloro che si diplomavano in quella Scuola. Un tutto indistinto che, in nome dell’esprit republicain, accentuava il senso di separatezza dalla società, nella quale invece emergevano culture diverse e conflitti sociali aspri.
Peraltro i critici dell’ENA sempre più di frequente sottolineavano come piuttosto che una élite culturale particolarmente talentuosa, l’Ecole National d’Administration selezionasse ormai una élite sociale poiché i suoi accessi erano di fatto monopolizzati dalle Grandes Ecoles parigine, e in particolare da SciencePO (anch’essa oggi in una fase di crisi profonda dopo gli scandali sessuali che hanno coinvolto il suo direttore Olivier Duhamel): e, in effetti, i dati sono lì a dimostrarlo, visto che in base alle statistiche più recenti l’80 per cento dei nuovi entrati all’ENA negli ultimi anni risultano essere figli di ex allievi. Dunque: un formidabile sistema di cooptazione e di autoperpetuazione della classe dirigente.
La stessa propaganda anti-macroniana continuava a rappresentare il giovane Presidente della Repubblica eletto fuori dai tradizionali schemi del bipartitismo francese, e le riforme liberali da lui promosse, come frutto di una cultura elitista, enarchiste e, dunque, priva di sensibilità sociale.
Era ormai ora di agire e dunque, a conclusione del “Grand debat”, Emmanuel Macron ha nominato una commissione presieduta da Frédéric Thiriez (anche lui enarchiste, avvocato e ora Presidente della Lega calcio francese) per individuare i fondamenti della riforma: è presumibile che il progetto di legge annunciato giovedì scorso dal Presidente della Repubblica ne seguirà le linee guida. Il corposo Rapporto Thiriez parte da un’analisi molto severa: l’ENA soffre di assenza di diversità, di presenza dei sessi del tutto squilibrata, di sovrarappresesentazione delle classi superiori, esercita di fatto il monopolio parigino sui concorsi ed è ormai priva di attrattività.
Innanzitutto si cambierà il nome: non più Ecole Nationale d’Administration ma Ecole d’Administration Publique-EAP. Accesso rigorosamente per concorso ma diversificazione su base territoriale e per percorsi formativi precedenti (non più solo dalle Grandes Ecoles). Sei mesi di corso comune da dedicare in parte all’inquadramento generale che dovrà formare una comune visione e consapevolezza della funzione pubblica negli alti livelli amministrativi, tecnici e giudiziari e in tutti i settori dell’amministrazione, anche dal punto di vista valoriale; una seconda parte da dedicare alla formazione militare e, infine, un’ultima parte riservata a uno stage operativo. Dopodiché ciascun allievo sarà destinato ad una delle sette scuole di settore (proliferate nel frattempo) compresa quella per la magistratura. Niente classifica finale per evitare che vi siano favoritismi nell’assegnazione dei diplomati alle carriere più prestigiose. Per tutti un passaggio nelle amministrazioni territoriali per comprendere i problemi del governo locale. Nel corso della carriera aggiornamenti professionali, mobilità e avanzamenti di carriera e di stipendio e stimoli per il passaggio dal settore pubblico a quello privato.
L’operazione di trasformazione non sarà né facile né rapida, ma si tratta di un cambiamento ormai maturo nell’opinione pubblica che riuscirà, si spera, a vincere le resistenze già espresse pubblicamente dall’Associazione degli ex allievi dell’ENA e da quanti sono parte del sistema di potere che l’ENA ha espresso. Macron si gioca parte del suo prestigio e molta credibilità perché su questa riforma così simbolica sarà sicuramente valutato nella prossima campagna elettorale. Ma per trasformare profondamente il sistema di reclutamento e formazione della haute function publique e della sua cultura occorreranno degli anni e ci vorrà determinazione e continuità da parte del Governo e del Presidente della Repubblica nell’attuazione della riforma. In caso di rielezione, Macron vorrà sicuramente completare il lavoro avviato nel corso del primo mandato; ma probabilmente anche nel caso – certo non auspicabile – di una vittoria di Marine Le Pen, la nuova Presidente in nome della sua battaglia contro l’establishment, avrebbe interesse a dare continuità alla riforma macroniana.
E noi che l’ENA non la abbiamo; noi che, quando, nel 2006, si tentò di creare qualcosa di simile, rinunciammo subito al progetto di selezionare e formare una burocrazia aperta all’innovazione e unita da una comune visione dei valori costituzionali dello Stato e della amministrazione pubblica, cedendo alle resistenze delle burocrazie più forti che avevano una scuola propria (ambasciatori, polizia di Stato, magistrati), possiamo ora noi imparare qualcosa dal progetto francese? Assolutamente sì. Possiamo e dobbiamo farlo, sfruttando al meglio il processo di ricambio e di ringiovanimento dei funzionari pubblici che si realizzerà nei prossimi anni e che il ministro Brunetta ha già avviato. Gli obiettivi fondamentali dovrebbero essere quelli di dare una base formativa comune e una comune visione ai funzionari dei diversi livelli amministrativi, esigenza fondamentale in un sistema multilivello così frammentato del quale, con la pandemia, abbiamo imparato a conoscere tutti i limiti e le manchevolezze. Una comune formazione della dirigenza a tutti i livelli e per tutti i settori potrebbe forse recuperare quella unitarietà di intenti e di principi gestionali che abbiamo perso e che difficilmente recupereremo attraverso un improbabile riassetto istituzionale.
Un secondo obiettivo dovrebbe essere quello di ricostituire, a tutti i livelli di governance, i corpi tecnici delle amministrazioni pubbliche nei settori tradizionali della progettazione e costruzione di opere pubbliche (settori che da tangentopoli in poi si sono svuotati e la cui carenza è tra le principali cause della nostra difficoltà di realizzare piccole e grandi opere pubbliche) e anche nei settori che sempre più divengono strategici: dalla sanità alla sostenibilità ambientale, alla reingegnerizzazione dei processi digitali. Le difficoltà che stiamo vivendo nell’approntare il Piano italiano Next Generation deriva molto dalla carenza di capacità direzionale strategica, tecnica e operativa. E dovremmo anche introdurre forme di aggiornamento e di valutazione professionale permanenti. Lo Stato deve attrezzarsi al più presto perché i prossimi saranno gli anni della ricostruzione e del rilancio dell’Europa e, in essa, dei singoli Paesi europei. Senza una amministrazione e una dirigenza rinnovate non saremo in grado di cogliere questa sfida e probabilmente, anche nel settore della pubblica amministrazione, assisteremo all’emigrazione dei giovani più talentuosi grazie a un mercato che, anche nell’alta dirigenza pubblica, è diventato europeo.