Ci siamo. Gli occhi del mondo sono puntati sulle elezioni Usa. Martedì 5 novembre i cittadini americani che non hanno ancora votato in anticipo vanno alle urne per eleggere il nuovo o la nuova presidente. In un mondo segnato da crisi geopolitiche profonde e caratterizzato da un’economia sempre più frammentata, il voto statunitense rappresenta l’appuntamento elettorale più atteso dell’anno, in grado – da solo – di decidere gli equilibri politico-economici internazionali. A sfidarsi sono l’attuale vicepresidente democratica Kamala Harris e l’ex presidente repubblicano Donald Trump. È un confronto tra candidati, ma soprattutto tra due visioni di America diametralmente opposte che per forza di cose saranno determinanti per il futuro assetto globale. E prevedere come finirà è praticamente impossibile, dato Harris e Trump sono testa a testa, con un leggerissimo vantaggio per il secondo negli Stati in bilico e un altrettanto flebile vantaggio della prima su scala nazionale. Ci aspettano dunque lunghe ore di attesa. Ciò che però possiamo fare nel frattempo è cercare di capire come funziona, cosa osservare con maggiore attenzione, quali sono i temi che incidono di più sulla vittoria dell’uno o dell’altra in un’America sempre più divisa e polarizzata.
Elezioni Usa: perché si vota martedì 5 novembre
Martedì 5 novembre, una data insolita per votare. Almeno per noi europei, abituati ad andare alle urne nel weekend e, spesso, durante la stagione più calda. Negli Usa però funziona diversamente. La scelta di votare a novembre risale addirittura al 1845. Il motivo è presto detto: novembre era il mese successivo al raccolto autunnale e cadeva “appena prima che la neve e il ghiaccio facessero chiudere le strade in molte zone del paese”. Quindi era il periodo più comodo per tutti. All’epoca si decise anche che le elezioni si sarebbero dovute tenere il martedì successivo al primo lunedì di novembre. Perché? Il lunedì venne escluso perché avrebbe richiesto a molti elettori di partire da casa la domenica, in calesse, per raggiungere i seggi. Il weekend era dedicato al riposo, il mercoledì era invece giorno di mercato. Oggi la data crea non poche difficoltà agli americani che sono costretti ad andare a votare in un giorno lavorativo. Anche per questo molti cittadini optano per il voto anticipato, di persona o via posta. Quest’anno, secondo i dati, oltre due terzi degli elettori, circa 77 milioni di persone, hanno già votato prima del 5 novembre.
Elezioni Usa, per cosa si vota: ci sono anche il Congresso e i referendum sull’aborto
Benché sia l’elezione più attesa, il 5 novembre non si vota solo per eleggere il o la presidente degli Stati Uniti. Gli elettori vanno alle urne anche per scegliere il nuovo Congresso: tutti i 435 membri della Camera e 33 membri su 100 del Senato. Non si tratta di un voto di secondo piano, dato che dalla composizione del Parlamento dipenderanno anche i margini d’azione dell’inquilino della Casa Bianca. Da sottolineare che, pur tenendosi lo stesso giorno, presidenziali e congressuali sono due elezioni separate, quindi gli elettori hanno la possibilità di scegliere il presidente di un partito, dando parallelamente la maggioranza al Congresso (o a uno dei due rami) ad un altro partito. Ad oggi la Camera è in mano ai repubblicani, il Senato è a maggioranza democratica. Secondo gli ultimi sondaggi, il Gop ha l’87% di probabilità di vincere al Senato e il 53% di mantenere il controllo della Camera.
Previsti anche diversi voti locali, tra i quali l’elezione di 11 governatori, dei procuratori generali di dieci Stati, sindaci e referendum locali. Tra questi ultimi spiccano quelli sull’aborto a due anni di distanza dalla decisione della Corte Suprema (anch’essa a maggioranza repubblicana) di rovesciare la sentenza Roe vs Wade che regolava il diritto all’aborto a livello federale. Lo scopo di queste votazioni è proprio quello di tutelare i diritti riproduttivi delle donne. Tra gli Stati chiamati a esprimere la loro opinione ci sono Montana, Arizona, Colorado, Florida, Maryland, Nevada, New York e South Dakota.
Elezioni Usa, i candidati: Harris vs Trump
Il Partito Democratico mira a riconfermarsi alla Casa Bianca con Kamala Harris, 60 anni, attuale vicepresidente degli Stati Uniti. Harris è la candidata dem dallo scorso 21 luglio e cioè da quando, dopo le forti pressioni subite dal suo partito e da numerosi sostenitori e donatori, Joe Biden ha deciso di ritirarsi dalla corsa alla presidenza. A suonare il de profundis sulla sua riconferma è stato il dibattito tv contro Trump del 27 giugno, dal quale l’attuale presidente è uscito malissimo. Prima di diventare vicepresidente Harris era stata senatrice della California e, ancora prima, procuratrice generale dello stesso Stato. Nel 2020 aveva sfidato Biden durante le primarie del Partito Democratico, salvo poi ritirarsi e appoggiarlo. In caso di vittoria sarebbe la prima donna non bianca a conquistare la presidenza.
Harris corre in ticket col candidato vicepresidente Tim Walz, governatore del Minnesota ed ex membro della Camera, ex insegnante di Storia e veterano della Guardia Nazionale. È considerato un moderato, non a caso è stato scelto proprio per cercare di ampliare la base elettorale e conquistare voti del Midwest, fondamentali per la vittoria.
Donald Trump non ha bisogno di presentazioni. Repubblicano, 78 anni, miliardario. È alla sua terza candidatura alla Casa Bianca. Nel 2016 riuscì a vincere contro Hillary Clinton, quattro anni dopo perse contro Joe Biden. Il Tribunale di New York lo ha condannato sia in sede civile, per frode legata alla Trump Organization, che in sede penale, per i pagamenti alla pornostar Stormy Daniels. È sotto indagine per diversi crimini, sia a livello federale che statale ed è sotto processo per il suo coinvolgimento all’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Se dovesse vincere, il tycoon diventerebbe il presidente più anziano della storia degli Stati Uniti.
Trump corre insieme al candidato vicepresidente J.D. Vance, senatore dell’Ohio, considerato un suo “clone”. La scelta è ricaduta su di lui per rafforzare l’attrattiva del ticket repubblicano su quei votanti potenzialmente più radicali che in passato si sono astenuti perché non si sono sentiti rappresentati dai due maggiori partiti.
I temi chiave
Economia, immigrazione, aborto, politica estera e cambiamento climatico. Sono questi i temi chiave su cui si decidono le elezioni presidenziali Usa. Neanche a dirlo, su tutti, i due candidati hanno approcci e soluzioni molto diversi, se non opposti. Sull’economia, per esempio, Trump promette nuovi dazi su beni stranieri, radicali tagli fiscali e riduzione drastica dell’inflazione (già scesa al 2,4% dal picco del 2022), mentre Harris punta sul riscatto della classe media, con proposte che spaziano dall’aumento delle tasse per le grandi società e sul capital gains alle deduzioni e agli aiuti per le medie imprese e le famiglie.
Sull’immigrazione Trump scommette su soluzioni radicali, come il completamento del muro al confine con il Messico (già promesso nel 2016 e nel 2020) e la deportazione di massa degli immigrati irregolari. Harris promuove invece una riforma delle leggi sull’immigrazione che offra percorsi verso la cittadinanza per gli immigrati irregolari, anche se si è detta comunque favorevole al rafforzamento delle frontiere.
Altro tema molto divisivo è l’aborto, su cui Trump ha cambiato idea molte volte, salvo poi dichiarare la volontà di lasciare mano libera ai singoli Stati e dire alle donne “vi proteggerò che lo vogliate o meno”. L’attuale vicepresidente invece vuole conquistare il voto delle donne proprio attraverso la rivendicazione del diritto all’aborto e dei diritti riproduttivi e ha promesso di portare avanti soluzioni che conducano al ripristino dell’aborto a livello federale.
Fondamentale anche la politica estera. Trump sostiene che sia necessario ridurre gli aiuti militari all’Ucraina e ha detto che, se diventerà presidente, porrà fine alla guerra “in 24 ore” (senza spiegare come). È considerato vicino a Putin e la simpatia reciproca tra i due leader risale ai tempi della sua presidenza. In Medio Oriente, invece, Trump è un convinto sostenitore di Israele, ma ha anche criticato alcune delle sue azioni durante la guerra contro Hamas. La politica estera di Harris invece è una diretta continuazione di quella portata avanti dall’amministrazione Biden: convinto sostegno militare all’Ucraina e sostegno a Israele. La vicepresidente ha però più volte criticato le azioni di Netanyahu e si è detta preoccupata per il mancato rispetto dei diritti umani a Gaza. Continua inoltre a sostenere la soluzione dei due stati. In politica estera, Trump e Harris sono d’accordo su una cosa sola: sulla necessità di contrastare il dominio cinese, anche se con metodi differenti.
Infine il cambiamento climatico, tornato al centro della scena dopo gli uragani Helene e Milton. Trump vede la lotta al cambiamento climatico come un ostacolo alla crescita, Harris ha invece proposto enormi investimenti su rinnovabili e sostenibilità allo scopo di contrastarlo.
Elezioni Usa, come si vota? I grandi elettori
Il presidente Usa viene eletto a suffragio universale indiretto. In ognuno dei 50 Stati, più il District of Columbia (il distretto dedicato alla capitale Washington), i cittadini non eleggono direttamente il presidente, ma 538 grandi elettori, un numero pari alla somma dei deputati (435) e dei senatori (100) che compongono il Congresso, a cui si aggiungono i 3 rappresentanti della capitale Washington. Il numero di grandi elettori a disposizione di ogni Stato varia in base alla dimensione e al numero di abitanti. Ad esempio, con l’ultimo censimento del 2020, il Texas ha guadagnato due delegati, mentre California e New York ne hanno perso uno.
A contare, dunque, non è la somma dei voti a livello nazionale, ma il numero di delegati che i due candidati riuscono a conquistare. È infatti già capitato che un candidato ricevesse più voti a livello nazionale, ma alla fine perdesse le elezioni: nel 2016, per esempio, Hillary Clinton ottenne 3 milioni di voti in più di Trump, ma fu quest’ultimo ad andare alla Casa Bianca.
Torniamo a noi: Harris e Trump si sfideranno contemporaneamente in tutti e 50 gli Stati (+1) che compongono gli Usa. In ognuno di essi (tranne 2) vige un sistema denominato winner-take-all: vale a dire chi ottiene il maggior numero di voti a livello statale si prende tutti i grandi elettori di quello Stato. Fanno eccezione solo Nebraska e Maine che invece usano un meccanismo ibrido: due grandi elettori sono eletti con solito metodo, gli altri (2 per il Maine, 3 per il Nebraska) sono invece assegnati in base a chi vince in ogni distretto congressuale dello Stato. Può dunque capitare che alcuni delegati vadano a un candidato, altri ad un altro.
Come si vince? C’è un numero da tenere bene a mente: diventa presidente chi raggiunge 270 grandi elettori su 538, la maggioranza semplice.
Gli Swing State: è qui che si decide la presidenza
Durante le elezioni presidenziali, gli Stati Uniti si dividono in Safe State e Swing State: i primi sono quelli in cui è facile prevedere chi vincerà perché tradizionalmente gli elettori pendono sempre e solo da una parte e anche perché uno dei due candidati gode di un supporto sufficiente da potersi considerare già vincitore. Lo Stato di New York, per esempio, non elegge un presidente repubblicano da 40 anni, mentre il Texas, al contrario, è considerato una roccaforte del Gop.
Le elezioni si decidono dunque nei cosiddetti Swing State o Stati in bilico. Si tratta di territori in cui il voto è incerto fino all’ultimo e dove i candidati investono la stragrande maggioranza del loro tempo e delle loro risorse pur di vincere. Sono dunque questi Stati a decidere chi sarà il o la futuro/a presidente degli Stati Uniti.
Gli Swing State possono variare da elezione e elezione: dal 1992 ad oggi, 30 Stati hanno votato per il candidato del partito opposto, rispetto all’elezione precedente, almeno una volta. Nel 2024 sono sette gli Stati in bilico e rappresentano 93 dei 538 voti totali del Collegio elettorale e circa il 18% della popolazione. Parliamo di: Arizona (11 grandi elettori), Georgia (16 grandi elettori), Michigan (15), Nevada (6), North Carolina (16), Pennsylvania (19), Wisconsin (10).
Secondo i calcoli degli esperti, Harris avrebbe buone possibilità di conquistare la Casa Bianca se vincesse in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, che non a caso sono gli Stati su cui ha investito di più. Potrebbe farcela anche se prevalesse in North Carolina, Arizona e Georgia, ma quest’ultimo viene considerato uno scenario molto improbabile. Trump, invece, per vincere avrebbe bisogno di conquistare Arizona, Georgia e Nevada, più uno tra Michigan, Pennsylvania e Wisconsin.
Gli orari e le date chiave
Negli Usa i seggi chiuderanno intorno alla mezzanotte del 5 novembre, ora italiana, ma l’orario cambierà a seconda del fuso orario dei vari Stati.
Una volta concluse le votazioni, si partirà con il conteggio delle schede. I risultati iniziali non sono ufficiali e, in molti casi, differiscono dai risultati finali. In base all’Electoral Count Act del 1877, gli Stati hanno cinque settimane di tempo da giorno delle elezioni per risolvere eventuali controversie legate alle elezioni. Il 17 dicembre i 538 grandi elettori si riuniranno per eleggere ufficialmente il presidente. Poi, il 6 gennaio 2025 (data diventata ormai nota dopo l’assalto al Campidoglio nel 2021), i voti del collegio elettorale saranno ufficialmente conteggiati durante una sessione congiunta del Congresso, e il presidente del Senato annuncerà i risultati delle elezioni. Il vincitore si insedierà alla Casa Bianca il 20 gennaio 2025.
Cosa dicono gli ultimi sondaggi
Sarà un testa a testa senza esclusione di colpi, il che vorrà dire anche che per conoscere il nome del vincitore potremmo dover aspettare parecchio.
A livello nazionale, quasi tutti i sondaggi parlano di un leggero vantaggio di Harris su Trump che però si sta costantemente riducendo da fine settembre: per Reuters/Ipsos la vicepresidente sarebbe avanti con il 44%, contro il 43% del tycoon. Per FiveThirtyEight, il divario sarebbe dell’1,4%, in entrambi i casi ampiamente all’interno del margine di errore.
Come va negli Stati in bilico? Per il New York Times/Siena College, Harris sarebbe avanti in Nevada (+3%), North Carolina (+2%), Wisconsin (+2%) e in Georgia (+1%). I due candidati sarebbero pari in Pennsylvania e Michigan, mentre Trump condurrebbe in Arizona (+4%).
Diverse le rilevazioni di FiveThirtyEight, secondo cui la candidata democratica sarebbe in vantaggio di un punto in Wisconsin e Michigan. Parità in Pennsylvania e Nevada, mentre il tycoon sarebbe avanti di un punto in North Carolina.
La grande sorpresa? Potrebbe essere l‘Iowa, stato Repubblicano, dove per il Nyt Harris sarebbe in vantaggio di 3 punti percentuali.