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Elezioni Usa: Trump gioca il tutto per tutto, la campagna elettorale sarà carica di colpi di scena

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Ormai è una sfida all’Ok Corral, la legge contro Donald Trump. Si può essere confortati da uno scontro fra un personaggio inaffidabile e narcisista e i principi e le regole collaudate che hanno fatto degli Stati Uniti il primo Paese governato dalle leggi e non dalla forza, nonostante tutto, nell’era moderna. Ma è bene stare in guardia perché nessuna legge potrà impedire che in qualcuna delle realtà più in bilico, Michigan,  Wisconsin, Nevada e altre tre o quattro, un numero sufficiente di elettori trumpiani porti in dote gli electoral votes dello Stato al candidato che vinse (per un soffio di 85 mila voti) nel 2000 e si ripresenta ora  per riprendersi quanto dichiara suo, cioè la Casa Bianca. Tutto questo mentre, dicono alcuni sondaggi, gli americani riflettono su una scelta tra un presidente vecchio, 82 anni il 20 novembre 2024, e uno sfidante corrotto fino al midollo, nei principi soprattutto, e nemico della legge; e neppure lui, a 78 anni quando si voterà a inizio novembre del prossimo anno, nel fiore degli anni. 

La legge contro Donald Trump e la campagna elettorale Usa

Quella chi si apre  in questi giorni, e ufficialmente a gennaio 2024, sarà una campagna unica, surreale, la legge contro Donald Trump, e contro 30 milioni circa, poco meno del 40% degli elettori repubblicani,  di irriducibili sostenitori che credono nelle sue accuse di brogli, tutte smentite dalla magistratura, nelle sue menzogne, nelle sue promesse e nei suoi metodi. Il risultato ci dirà se gli Stati Uniti stanno ritrovando l’equilibrio o sono ancora in preda a un clima politico esasperato, voluto a freddo come metodo di battaglia politica al di là di ogni regola, basato sulla totale delegittimazione dell’avversario e che appesta Washington, e il Paese, da ormai circa 40 anni. Trump non ha creato questo, lo ha dilatato oltre ogni dire.

Donald Trump e i suoi quattro processi: di cosa è accusato e cosa può succedere

Trump ha quattro procedimenti e tutti lo vedranno in aula durante la campagna elettorale. Due gestiti dalla magistratura statale, a New York (bilanci falsificati anche per pagare il silenzio di una pornostar nel 2016) e ad Atlanta, per le accuse e le pressioni sul governo locale, repubblicano, perché nel novembre 2020 trovasse a urne chiuse i circa 12 mila voti che mancavano al presidente uscente per vincere gli electoral votes dello Stato. Ad Atlanta rischia grosso, perché vi sono 18 coimputati e qualcuno potrebbe cambiare fronte durante il dibattimento o prima, anche se la complessità del processo offre alla difesa vari appigli. Le accuse sono chiare, le registrazioni delle telefonate minacciose di Trump sono ben note, e il fatto che a maggio la Russia notoriamente amica di Trump abbia aggiunto alla lista dei nemici di Mosca il nome di Brad Raffensperger, repubblicano e segretario di Stato della Georgia che respinse prima ancora del Governatore le pressioni presidenziali e che mai si è occupato di politica estera, non aiuta quanto a immagine. Inoltre, se condannato e se nonostante dovesse vincere le elezioni, Trump non potrà autoperdonarsi come nei procedimenti sotto la legge federale perché in Georgia è solo uno speciale comitato statale che può concedere la grazia.   

Vengono poi i due casi federali, uno in Florida per la storia dei documenti segreti trovati in suo possesso, e l’altro, il più denso di significati, a Washington sulle sue responsabilità nell’incredibile assalto al palazzo del Congresso il 6 gennaio 2021, mentre il Senato ratificava i risultati elettorali forniti dagli Stati con il Presidente che, fuori,  continuava a insistere perché venissero invalidati. A questo si aggiunge che  su 64 ricorsi legali presentati dal fronte trumpiano in 6 Stati vinti per poco da Biden solo uno, in Pennsylvania,  ha trovato il riscontro di alcuni voti sospetti, ma assolutamente troppo pochi per potere alla fine incidere sul risultato. Tutto  è esaminato con molta attenzione in un rapporto intitolato Lost, Not Stolen, cioè elezioni perse e non rubate, presentato un anno fa da otto repubblicani di impeccabili credenziali conservatrici, due ex senatori e gli altri ex magistrati federali di nomina repubblicana. Il testo stigmatizza più volte l’irresponsabilità di Trump, parla di falsità ripetute con ostinazione e spregio per la tradizione del Paese, e ricorda come il principio “nessuno è superiore alla legge” sia alla base della convivenza civile.

L’assalto dei repubblicani al potere: i precedenti

Questo e altro ottiene solo, dal fronte trumpiano, vituperi e insulti. Si tratta di una storia incominciata molti anni fa, alla fine dei 70, quando ormai costantemente la Camera dal 1954 era a maggioranza democratica e alla fine i repubblicani esasperati partirono alla riconquista. La tattica fu spietata, alla iugulare, prima per mettere ai margini la allora forte corrente moderata interna al partito, poi per attaccare sempre alla iugulare i democratici, con insulti, insinuazioni, accuse di incapacità, dimostrate da una Camera che non funzionava più e in cui i new republicans facevano il possibile perché non funzionasse. E in più, teorie complottiste, necessità di un contro-complotto, e il sogno di un’America da  favola.

Newton Gingrich della Georgia fu il protagonista principe della stagione, deputato dal 1979, teorizzatore della guerriglia costante in nome dei superiori interessi del Paese, capogruppo della minoranza dal marzo 1989, e artefice della vittoria repubblicana alle midterm del 1994 e quindi da allora presidente della Camera. Cavalcò alla grande il caso Monica Lewinsky puntando all’impeachment del presidente Bill Clinton.  Ma gli elettori non lo seguirono, come dimostrò il voto di midterm del 1998. Nel frattempo era emerso che anche lui aveva la sua Monica Levinsky, poi diventata e tuttora sua moglie,  e ambasciatrice in Vaticano con la presidenza Trump, e nel 1989 si dimise dal Congresso. Ma il partito era diventato con Gingrich altra cosa. “Creò una situazione – spiegava tempo fa Mickey Edwards, dal 77 al 93 deputato repubblicano per un collegio dell’Oklahoma e figura di spicco, – dove l’unica fedeltà è al partito ad ogni costo e in ogni momento, non importa che accade. Il nostro  sistema è basato sul concetto di Madison del potere che controlla un altro potere. Gingrich ha avuto un ruolo chiave nell’erodere tutto questo”.  E ha pagato a lungo, per i repubblicani, che sono diventati soprattutto negli anni di Obama il partito  dominante nella politica locale, dove ancora oggi su 7386 deputati e senatori statali 4055 sono repubblicani e 3273 democratici.

Elezioni presidenziali Usa: la stella di Trump brilla ma meno di prima. I colpi di scena non mancheranno

Trump, confermando l’esattezza della diagnosi di Edwards,  continua a muoversi come presidente-ombra e come se nessun altro potere possa controllarlo, in una perfetta logica populista (il capo e il suo popolo e basta) che anche noi in Europa, e in Italia, conosciamo. Il consenso, ancora forte, è tuttavia in calo perché la nulla credibilità delle sue accuse di elezione rubata (nel 2020) è evidente ai più, ma chi ha creduto nel messia fatica a diventare un apostata. Gingrich fu a suo tempo un Battista efficace. Aspettiamoci una campagna mai vista, con possibili colpi di scena, persino un tentativo del vertice repubblicano di marginalizzare Trump nonostante le primarie nella forte convinzione che sia un perdente. Non escludiamo nulla. Anche se i sondaggi, l’ultimo il Politico/Ipsos cinque giorni fa, dicono che la maggioranza (61%) degli americani, un terzo abbondante dei repubblicani, quasi tutti i democratici e il 63% della componente determinante, gli indipendenti, vogliono una sentenza sui procedimenti contro Trump prima del prossimo voto. Il che si avvicina molto a una sentenza capitale per le speranze presidenziali dell’ex developer immobiliare.

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