Se qualcuno se la sente di fare a metà ottobre previsioni sull’esito del voto presidenziale americano del 6 novembre 2012, si faccia avanti. Una ragionevole prudenza suggerisce di rinviare ogni pronostico attorno al 28-29 ottobre, perché solo allora sapremo se la rimonta di Mitt Romney ha tenuto e se le sue chances di vittoria sono davvero temibili, sia nel voto popolare nazionale sia in quello di sei Stati-chiave capaci di dargli la maggioranza dei voti elettorali richiesti. Come noto sono gli Stati che eleggono il Presidente, ciascuno con un numero di voti proporzionale alla popolazione, da 55 (California) e 3 (Montana e vari poco popolosi), e quasi ovunque i voti dello Stato, o voti elettorali, vanno in toto a chi ha conquistato la maggioranza dei voti popolari.
Alcuni di questi Stati sono sempre cruciali e combattuti, come Ohio e Florida, altri lo sono in questa particolare consultazione. In ordine di importanza oggi contano Ohio e Wisconsin, a pari peso, Florida, Virginia, Iowa, e pure Colorado. Se Romney prende i voti elettorali dei primi quattro si avvicina molto ai fatidici 270 voti elettorali che determinano il vincitore.
L’Ohio è un simbolo, perché è dal 1856 che un candidato repubblicano ha sempre dalla sua questo Stato se vince la Casa Bianca. Ma strappare il Wisconsin, da 20 e più anni sicuro per i democratici, sarebbe un segnale di forza difficilmente, per Obama, arginabile. Quindi, la sera del 6 novembre (notte ora italiana) attenzione ai risultati del Wisconsin per prima cosa: se Obama non è in testa sarebbe per lui un pessimo segnale. Se invece tiene, e in Ohio Romney non sfonda, è imminente un secondo mandato Obama. Se l’attuale presidente prende anche la Florida, il bis è praticamente sicuro. Se Obama perde Ohio e Florida, probabilmente torna a casa. E se perde il Wisconsin, torna a casa sicuro o quasi, perché quello sarebbe il segnale che l’argine si è rotto.
Questa è l’aritmetica elettorale, sempre molto importante, perché se nel 2004 John Kerry avesse preso 118mila voti in più in Ohio, appena il 2% dei suffragi di quello Stato, sarebbe stato lui il vincitore e non un Bush figlio che pure aveva alla fine quasi 3 milioni di voti popolari in più.
Nella sostanza Obama è frenato dall’economia, che non va bene. Le famiglie a maggioranza si sono impoverite e continuano a perdere potere d’acquisto, perché i lavori a buona paga sono sempre più rari e i nuovi lavori in genere pagano un terzo in meno. Obama è appesantito da una campagna che, dopo l’ hope and change di quattro anni fa, può soltanto adesso fare appello essenzialmente al timore che una presidenza repubblicana incute in parte dei ceti popolari e della middle class. Non è solo il censo che divide gli elettori, perché uno dei serbatoi di voti repubblicani sta in quella che in Italia si chiamerebbe ancora, forse, classe operaia e in America va sotto l’etichetta di blue collar workers. Divide anche un’idea dell’America. E per molti l’America dei repubblicani è troppo individualista e dura.
Quindi Obama vincerà se i timori che una presidenza Romney solleva saranno sufficientemente diffusi. E Romney vincerà se l’insoddisfazione per le politiche dell’attuale presidente e le sue scelte arriverà il 6 novembre al punto di non ritorno. Gli elettori che usciranno di casa ancora incerti e decideranno all’ingresso nel seggio rischiano questa volta di essere determinanti.
Per l’economia e la finanza il dato di fondo di questa campagna elettorale resta il dramma del debito pubblico, arrivato ormai al 103% del Pil nei dati ufficiali, che però non tengono conto del debito degli Stati e degli enti locali né conteggiano gli impegni presi da Washington quattro anni fa per garantire i circa 6mila miliardi del sistema della finanza immobiliare pubblica (Fannie e Freddie). Con Bush figlio il debito è cresciuto di 5 mila miliardi in otto anni e sembrava un dramma. Con Obama, causa crisi, di 5 mila miliardi in quattro anni. La spirale va interrotta.
Obama dice che lo farà con tagli sì, ma anche con nuove tasse. Romney dice che userà ben più i tagli che le tasse, nemiche dell’intraprendenza americana. In realtà Obama farà più tagli di quanto dice e Romney metterà più nuove tasse di quanto oggi ammetta, ma entrambi non potranno evitare una cura da cavallo. E’ anche per questo che il voto rischia di apparire, fino all’ultimo o quasi, incerto. Al momento Obama resta favorito, ma non troppo. E Romney ha dimostrato di non essere affatto fuori gioco. Tutt’altro.