Gli americani votano il 3 novembre per decidere se Donald Trump merita altri quattro anni e se la più recente delle varie stagioni populiste americane, incarnata dal miliardario immobiliarista, procede o deraglia. O meglio, il 3 novembre si conclude la lunga consultazione che, tra voti nei seggi il 3 novembre, voti anticipati nei pre-seggi consentiti in 39 Stati più il distretto federale di Washington, voti per posta (absentee ballot), avrà visto un numero eccezionale di elettori, ben sopra la media quadriennale di circa 100 milioni di elettori degli ultimi 50 anni, e assai più dei 138 milioni di quattro anni fa.
Ma ci vorrà tempo, molto più del solito, per sapere come è andata a finire. I segnali che poco dopo la chiusura degli ultimi seggi sul Pacifico venivano in passato riversati sul sistema dei media e consentivano a volte di poter indicare il quasi certo vincitore non molto dopo la mezzanotte della costa est americana, quest’anno si faranno spesso attendere. Nessuno esclude che si debba aspettare ad esempio il pomeriggio del 4 novembre. Il 2020 è l’anno dei record per numero di votanti, per l’utilizzo del voto postale esploso e più o meno quadruplicato come antidoto alle code ai seggi in tempi di pandemia, per l’alto voto anticipato ai seggi dove possibile; in totale più di metà dei probabili moltissimi elettori si era già espressa una settimana prima del 3 novembre, anche se solo dopo il 3 novembre si saprà come.
Forse verrà battuto il record storico del 1908 come rapporto tra aventi diritto e votanti effettivi. Anche quella fu una stagione di fortissime passioni populiste, e anche quella elezione si tenne un 3 novembre. William Jennings Bryan, il simbolo del populismo americano a cavallo dei due secoli, si presentava per la terza volta candidato democratico ed ebbe come al solito il voto pieno del Solid South populista e razzista e allora appassionatamente democratico (i “diritti degli Stati” contro Washington) e fu per la terza volta sconfitto, dal repubblicano William Howard Taft come prima, due volte, dal repubblicano William McKinley. Mai la mobilitazione fu più grande, agricoltori soprattutto contro ferrovie acciaierie tessiture carbone e petrolio, e contro Wall Street.
Oggi tre temi dominano:
- un referendum su Trump e la sua stagione nazionalpopulista;
- le ansie per l’economia;
- e il disastro della pandemia troppo sottovalutata dal presidente.
Il fatto che l’anziano e un po’ senile Joe Biden sia uno sfidante temibile segnala che la posizione dell’immobiliarista newyorkese non si è rafforzata in questi anni. L’essersi fatto conoscere assai meglio di prima non gli ha giovato, agli occhi di molti americani. Di quanti? Servirà pazienza per avere il verdetto. A rallentare tutto ci sono gli aspetti tecnici di un voto che è federale nel significato ma statale, 50 diversi voti statali che si sommano, come regole e procedure.
Ad esempio, se si potesse avere presto dati sufficientemente ampi su due stati-chiave come Ohio e Pennsylvania sarebbe possibile individuare il quasi sicuro vincitore ben prima dell’alba americana del 4 novembre. L’ Ohio è lo Stato che vota sempre con il vincitore e in 31 elezioni, dal 1896, ha sbagliato solo due volte, nel 1944 e nel 1960; da molti decenni più repubblicano che democratico, offre questa volta a Biden alcune speranze. Se Trump lo perde è per lui un pessimo segnale. Sarebbe ancor più utile sapere nei tempi abituali del passato, un’ora circa dopo la chiusura dei seggi sul Pacifico e cioè un’ora circa dopo la mezzanotte di New York, chi ha vinto la Pennsylvania, con i suoi 20 voti nell’electoral college (sono pari, come ovunque, alla somma dei deputati che lo stato manda al Congresso federale più i due senatori). Pennsylvania con circa 40mila voti di vantaggio, Wisconsin e Michigan con assai meno consentivano quattro anni fa per un minuscolo differenziale totale di 77mila voti la vittoria di Trump nel sistema dell’electoral college.
Ma qui scatta il combinato disposto tra la massa abnorme di voti per posta e le regole. Mentre 22 Stati possono fare il pre-processing, preparare i voti postali per la lettura ottica man mano che arrivano a partire da settembre e altri 25 possono comunque anticipare di alcune settimane o giorni l’operazione, in Pennsylvania e in Wisconsin il tutto parte solo la mattina del 3 novembre, come in Alabama e Missouri, che contano poco come segnale perché sicuramente repubblicani. Ma non basta. La Pennsylvania deve conteggiare per legge anche i voti postali arrivati fino al 6 novembre, purché spediti entro il 3. Ci si potrebbe rifare come Stato-civetta con l’Ohio, dove il pre-processing scatta quasi un mese prima del voto; ma l’Ohio deve aspettare la posta fino al 13 novembre. Pennsylvania e Ohio sono quindi fuori gioco come vedette nella nebbia, in quest’anno di massiccio voto postale. Michigan e Wisconsin sarebbero quasi altrettanto utili come Stati-civetta, ma il primo apre i voti postali solo il 2 novembre, e il secondo il 3 e difficilmente quest’anno avranno il responso prima dell’alba.
A chi volesse però osservare la Storia in marcia, fare le ore piccole e piccolissime e seguire il tutto, resta una buona opportunità con la Florida, che andò a Trump nel 2016 per 100mila voti su 9 milioni di votanti ed è quest’anno contendibile, così come l’Arizona, i cui dati però arrivano dopo per questioni di fuso orario. Se Biden strappa la Florida è un colpo durissimo per i repubblicani, se Trump mantiene Florida e poi l’Arizona è un colpo basso per Biden, che comunque avrebbe ancora un percorso alternativo ai 270 voti elettorali che fanno il presidente, su un totale di 538, mentre persi quei due Stati Trump non ne ha praticamente più nessuno.
Non bisogna dimenticare poi l’effetto “red mirage” o miraggio rosso, dal colore simbolo dei repubblicani, che potrebbe pesare non sui risultati finali, ma sul clima del dopo-voto, rendendolo con Trump sulla scena quantomeno pirotecnico. Il “red mirage” sarebbe l’illusione del 3 notte e magari anche del 4 che in numerose contee e in qualche Stato i repubblicani hanno vinto per il semplice fatto che i repubblicani, è accertato, votano assai meno per posta e assai più ai seggi, e quindi i loro voti verrebbero in numerosi Stati conteggiati prima.
Non tutti i sondaggisti e i politologi sono d’accordo, anzi, ma Hawkfish, una società di analisi creata dall’ex sindaco di New York ed ex pretendente democratico Michael Bloomberg, valuta che l’effetto “red mirage” potrebbe consentire d Trump di attribuirsi, la mattina del 4 ad esempio, fino a ben 408 voti elettorali, una stravittoria, per poi vedere la sconfitta con l’arrivo di tutto il voto postale. Per questo Trump ha parlato a lungo dei rischi del voto postale spesso “truccato”, cosa smentita nel 2017 da un’analisi statistica del Brennan Center for Justice della Law School della New York University, che indica in una forbice tra lo 0,00004% e lo 0,0009% dei voti la realtà di tentativi di frode via posta.
Questioni tecniche e procedurali avranno quindi il loro preso, il 3 novembre e dopo. La realtà politica e storica sarà comunque quella di un responso, un sì o un no, a una presidenza che ha ripreso e con uno stile a dir poco inedito un cammino già tentato in altre epoche dalla polis americana contro le élite e in nome dei diritti e della saggezza del common man, l’eroe ultimo del mito americano. Al centro, più ancora della personalità singolare di Donald John Trump, c’è il concetto del ruolo dello Stato federale nella vita del Paese, e c’è il concetto di una politica estera che non sia solo “business” come si diceva un secolo fa, dichiarando che “the business of America is business”.
Come se il tutto si muovesse nel vuoto, da un contratto d’affari all’altro. Trump vinceva nel 2016 perché prometteva di prendere a calcioni i mercanti del tempio, burocrati e affini, di scacciarli come aveva promesso e non aveva fatto Barack Obama, già un presidente eletto in chiave semipopulista e che si comportò da tecnocrate. Trump piaceva a molti, nel Midwest soprattutto, perché capace di flip the bird, di fare il gesto dell’ombrello a quelli di Washington. E di dare ragione al common man.
Had enough? Ne avete avuto abbastanza? Può darsi. L’anti-élite vera o presunta che comanda diventa presto élite. Si va alla fase finale del voto con un Biden messo non male e un Trump in difficoltà, ma non ancora battuto. La pandemia potrebbe giocare un ruolo pesante e non certo a favore di Trump. Per noi, a fronte di un Presidente che vorrebbe umiliare e smembrare a tutto oggettivo vantaggio del suo amico Putin quell’Europa che i suoi predecessori hanno a lungo giudicato un partner irrinunciabile in un mondo difficile, la preferenza si direbbe obbligata.
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