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Elezioni Usa 2024 sotto la lente di goWare: i rematch delle Presidenziali nella storia degli Stati Uniti. Intervista al professor Luconi

FIRSTonline

Stando a una recente indagine Gallup un quarto dell’elettorato americano non gradisce nessuno dei due candidati che si confronteranno il prossimo novembre per la conquista della Casa Bianca. L’indagine mostra pure che Trump mantiene più o meno gli indici di gradimento del 2020 con solo uno di questi a superare il 50 per cento. Biden si trova invece di fronte a un cospicuo arretramento nel gradimento degli elettori rispetto ai livelli del 2020.

Può anche essere che l’elettorato americano, a differenza che nello sport, non ami molto le rivincite o i rematch, cioè la ripetizione di un confronto tra due candidati già avvenuto e risolto. Sta di fatto, però, che due terzi dell’elettorato repubblicano ritiene che il risultato elettorale del 2020 sia stato falsato e quindi una rivincita è, come dire, dovuta e giusta.

Il Partito democratico, dal canto suo, ritiene che Biden sia il candidato più giusto per battere Trump, visto che lo ha già fatto. Pertanto il rematch può essere apparso inevitabile alla maggior parte della base dei due partiti. Non sono stati molti i rematch nella storia americana, ma qualcuno c’è stato. Abbiamo chiesto al professor Stefano Luconi, docente di Storia e istituzioni delle Americhe all’Università di Padova e autore con goWare di un libro-guida alle prossime elezioni presidenziali americane, di raccontarceli.

Iniziamo con due rematch che mostrano delle somiglianze inattese con ciò a cui stiamo assistendo oggi. Nella storia c’è già veramente tutto. Forse dovremmo apprenderla un po’ meglio.

Le primarie repubblicane e quelle democratiche hanno ormai stabilito che le elezioni del prossimo novembre saranno un rematch, cioè una nuova sfida, tra Donald Trump e Joe Biden, che si sono già affrontati nel 2020. Si tratta di un evento inconsueto ma non inedito nella storia degli Stati Uniti. Quale è stato il rematch più clamoroso nella storia americana?

“Già le quarte elezioni presidenziali degli Stati uniti, svoltesi nel 1800, furono una replica di quelle del 1796. In entrambi gli anni si affrontarono il federalista John Adams e il democratico-repubblicano Thomas Jefferson. Nel 1796 vinse Adams, forte del prestigio della carica di vice del presidente uscente e “padre della patria” George Washington, nel 1800 Jefferson”.

Quindi nel 1800 ci fu un ribaltamento dell’esito delle elezioni del 1796. Che cosa accadde?

“Oltre alle conseguenze dell’aumento della pressione fiscale e alla supposta debolezza della politica estera di Adams verso la Francia (alcuni elettori federalisti del 1796 avrebbero voluto dichiararle guerra perché non rispettava i diritti commerciali degli Stati uniti), alla vittoria di Jefferson contribuirono in parte le accese denunce dei democratici-repubblicani contro la presunta involuzione autoritaria della presidenza di Adams, alla quale imputarono di essersi avvalsa di leggi che essa stessa aveva promosso, gli Alien and Sedition Acts approvati dal Congresso nel 1798, per colpire gli avversari politici e sottrarre loro potenziali elettori”.

Che cosa prevedevano gli Alien and Sedition Acts?

“Uno di questi provvedimenti, in particolare, estese a quattordici anni il periodo minimo di residenza per richiedere la cittadinanza statunitense e per acquisire conseguentemente il diritto di voto perché parte degli immigrati più recenti – inglesi costretti all’espatrio in quanto contrari alla monarchia e radicali francesi usciti sconfitti dalle svariate fasi della rivoluzione, come nel caso dei giacobini – avevano un orientamento ideologico vicino a quello dei democratici-repubblicani e quindi, se naturalizzati nei cinque anni previsti dalla precedente normativa, avrebbero potuto portare voti al partito di Jefferson”.

Una sorta di legge ad personam. Ma non fu l’unica misura illiberale, vero?

“Un’altra misura rese un reato penale la diffusione di affermazioni false e tendenziose sul governo federale, un modo per mettere il bavaglio soprattutto ai giornalisti critici dell’operato di Adams e schierati con Jefferson, in aperta violazione della tutela della libertà di espressione sancita dal primo emendamento della Costituzione. Non a caso, la prima persona a essere incriminata, processata e condannata a una multa (1.000 dollari, corrispondenti a oltre 24.000 dollari odierni) e a un periodo di carcerazione (quattro mesi) per avere diffamato l’amministrazione federalista fu un membro democratico-repubblicano della Camera, Mattew Lynch, che sul Vermont Journal aveva tacciato la presidenza di Adams di “ridicola pompa, sciocca adulazione e avarizia egoista”.

Al tempo Jefferson era vicepresidente, vero? Per lui non valeva il Sedition Act?

“Il fatto che il Sedition Act fosse una legge pensata a beneficio di Adams è attestato dalla constatazione che la disposizione non puniva chi avesse contestato l’operato del vicepresidente che, in quegli anni, era proprio Jefferson. Al tempo non esisteva una votazione separata per il presidente e il vicepresidente e questa seconda carica era assegnata al secondo candidato più votato che, per l’appunto, nel 1796 era stato Jefferson”.

Adams si confrontò anche con la magistratura. Sembra che la storia tenda a ripetersi, in qualche modo.

“Il presunto ricorso di Adams alla magistratura per colpire gli avversari e in particolare i direttori delle testate filo-jeffersoniane nell’ambito di un rematch per la presidenza sembrò anticipare di oltre due secoli la strategia che Trump sta adottando nella campagna elettorale di quest’anno, ovvero il suo tentativo di attribuire i 91 capi di imputazione che pendono sul suo capo a giudici politicizzati di orientamento democratico che starebbero facendo il gioco di Biden”.

Ci sono anche altre analogie tra i due rematch?

“In effetti sì. Le analogie tra lo scontro Trump-Biden e quello Adams-Jefferson non si fermano qui. Al pari di quella odierna, la campagna elettorale del 1800 fu altamente conflittuale e si svolse senza esclusione di colpi. Adams rispose alle accuse dei democratici-repubblicani precorrendo l’allestimento di una trumpiana macchina del fango che, attraverso la stampa a lui vicina, fece circolare quella che fu forse la prima fake news della storia elettorale statunitense, cioè l’illazione che Jefferson fosse un ateo, un libertino e un meticcio, figlio di una nativa americana e di un mulatto”.

Un’accusa devastante per l’epoca, vero?

“Sì, era una congettura potenzialmente devastante perché la base elettorale del partito democratico-repubblicano era negli Stati schiavisti del Sud (Jefferson stesso risiedeva in Virginia), dove indigeni e afrodiscendenti venivano considerati esseri inferiori e sarebbe stato quindi inconcepibile appoggiare un candidato alla presidenza che avesse sangue autoctono e africano. Se poi si pensa che dopo la sconfitta nelle elezioni del 1800 Adams non presenziò all’insediamento di Jefferson, ma lasciò la capitale alle prime luci dell’alba per non incontrare il suo successore, il pensiero non può che correre al rifiuto di Trump di partecipare alla cerimonia per l’inizio del mandato di Biden nel 2020”.

A proposito di analogie con lo stato di cose attuali, si può andare alle elezioni di due secoli fa che videro la sfida tra John Quincy Adams e Andrew Jackson.

“Il rematch più simile a quanto si prospetta per il prossimo autunno fu, in effetti, quello che contrappose John Quincy Adams, il figlio di John, e Andrew Jackson nel 1828. Ad accomunare queste due sfide, infatti, è il rifiuto del candidato sconfitto nelle elezioni precedenti (Trump nel 2020 e Jackson nel 1824) di riconoscere il responso del voto per presunte frodi non provate e, quindi, la sua determinazione a prendersi la rivincita quattro anni dopo”.

Che accadde nelle elezioni del 1824?

“Le elezioni del 1824 si svolsero in un momento di transizione politica, dopo lo scioglimento del partito federalista, e videro in campo quattro candidati principali, tutti di orientamento democratico-repubblicano: John Quincy Adams, Andrew Jackson, William Crawford e Henry Clay. La moltiplicazione degli aspiranti alla presidenza fece sì che nessuno raggiungesse la maggioranza assoluta dei voti elettorali. Come previsto dalla Costituzione, la designazione del presidente passò allora alla Camera dei Rappresentanti con un ballottaggio tra i tre più votati: Jackson, che aveva ottenuto 99 voti elettorali, Quincy Adams, che ne aveva ricevuti 84, e Crawford, che ne aveva conseguiti 41. Quest’ultimo uscì subito di scena perché fu colpito da un ictus e, quindi, non sarebbe stato nelle condizioni di ricoprire la carica. Ci si aspettava che il voto della Camera sarebbe stato solo una formalità e che la scelta sarebbe caduta su Jackson in quanto vincitore della maggioranza relativa. Inoltre, in quanto figlio del presidente federalista, Quincy Adams non sembrava neppure un vero democratico-repubblicano”.

E invece si ebbe un evento inatteso, una sorta di ribaltone?

“Clay, che costituzionalmente era escluso dal ballottaggio perché si era piazzato al quarto posto, forte dell’autorevolezza che gli derivava dalla veste di presidente della Camera, invitò i suoi sostenitori nel ramo basso del Congresso a riversare le loro preferenze su Quincy Adams, consentendogli di conquistare la Casa Bianca. Una delle prime decisioni del neopresidente fu la nomina di Clay a segretario di Stato”.

Tutto questo aveva un senso politico o era semplicemente voto di scambio?

“Jackson e i suoi accoliti gridarono allo scandalo e considerarono Quincy Adams un presidente illegittimo, alludendo a una sorta di compravendita delle cariche e a un accordo segreto – le cui prove, comunque, non furono mai trovate – con Clay per accedere alla Casa Bianca, rovesciando la volontà della maggioranza, ancorché relativa, dell’elettorato popolare e dei grandi elettori. In realtà, la scelta di Clay aveva una sua logica politica perché il presidente della Camera condivideva con Quincy Adams un programma di rafforzamento dei poteri dello Stato federale e di incoraggiamento della crescita manifatturiera attraverso il protezionismo doganale e l’integrazione del mercato interno per mezzo dello sviluppo di infrastrutture per il commercio”.

E nel 1828 che cosa accadde?

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“Nelle elezioni del 1828 Jackson si presentò come il difensore dei bisogni del popolo americano contro le prevaricazioni del ceto politico, legato agli interessi del mondo della finanza e dell’imprenditoria, che aveva portato Quincy Adams alla Casa Bianca. Anticipando i contenuti del discorso di insediamento di Trump nel 2020, considerò la propria elezione come la restituzione al popolo di quel potere che la cricca dei politicanti di Washington gli aveva sottratto in precedenza. Jackson fu di fatto il primo presidente populista degli Stati Uniti e, il primo giorno del suo mandato, volle aprire le porte della Casa Bianca alla folla dei suoi elettori. Non a caso, il suo ritratto sarebbe stato collocato nello Studio Ovale al momento dell’entrata in carica di Trump”.

La prossima settimana pubblicheremo la seconda e ultima parte relativa a rematch relativamente più vicini a noi in ordine di tempo (Harrison v. Cleveland, Eisenhower v. Stevenson etc.)

Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).

Libri
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle
Stefano Luconi,Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle

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