I nemici, dentro e fuori il suo partito, lo chiamano “il vecchio”; gli amici, dentro e fuori il suo partito, il “Gandhi turco”. Kemal Kiliçdaroglu, 74 anni, leader del Partito repubblicano del popolo (Chp), quello di Ataturk, fondatore della Turchia moderna, ha buone possibilità di prendere il posto di Recep Tayyip Erdogan alla testa del grande Paese, 85 milioni circa di abitanti, da sempre cerniera fra l’Europa orientale e l’Asia occidentale. Mentre ricorre l’anno del centenario della Repubblica.
Elezioni Turchia: Kiliçdaroglu vs Erdogan, un referendum sul presidente in carica
Il 14 maggio Kiliçdaroglu sfiderà nelle urne Erdogan, da venti anni padre-padrone della Turchia, in un voto che porterà conseguenze importanti non solo nel Paese, ma nell’intero scacchiere geopolitico mediorientale e nel mondo.
Dal punto di vista interno, queste elezioni appaiono come un referendum pro o contro il presidente in carica.
Erdogan non parte da una buona posizione. Il consenso per lui è rimasto sotto il 50% negli ultimi due anni, e se non è precipitato ulteriormente è stato a causa dell’accresciuto prestigio della Turchia sul piano internazionale, grazie alla mediazione nel conflitto fra Russia e Ucraina e la normalizzazione dei rapporti con i vicini mediorientali, soprattutto con le monarchie del Golfo, che gli forniscono per questo sostegno finanziario.
Elezioni Turchia: chi è Kemal Kiliçdaroglu, il Gandhi turco
Chi è quindi lo sfidante che potrebbe stavolta portare via il trono al potente Sultano? Già il carattere differenzia Kiliçdaroglu dal presidente in carica.
Tanto Erdogan è sanguigno e aggressivo, quanto Kiliçdaroglu è pacato e sempre preoccupato di trovare il punto in comune con l’avversario. Perfino sua moglie, parlando con un giornalista turco, ha dovuto ammettere che “con suo marito è veramente difficile litigare”.
Sono anni che Kiliçdaroglu tesse la sua tela di pazienza e pacatezza. Ha consentito addirittura a una delle sue avversarie interne, Meral Aksener, di costituire il suo gruppo in Parlamento, lasciando che 15 deputati del Chp si aggiungessero alla formazione della collega. Nella convinzione che l’opposizione a Erdogan tanto più sia potente quanto più rappresenti sensibilità diverse. E, cosa ancora più strabiliante, ha convinto le due stelle nascenti del suo stesso partito, i sindaci di Ankara e di Istanbul, meglio piazzati nei sondaggi, a farsi da parte e a concedere a lui la sfida per lo scontro finale contro il Sultano.
È nata così la coalizione anti-Erdogan, il “Tavolo dei Sei”, che già dal nome evoca un’epopea.
Nell’alleanza vi sono, oltre al Chp di Kiliçdaroglu, partiti dai nomi suggestivi (il Partito Buono, il Partito della Felicità, il Partito del Futuro) e altri che si richiamano a idee più classiche (Partito Democratico, Partito della Democrazia e del Progresso).
Di mestiere Kiliçdaroglu è un funzionario pubblico, ex contabile della Previdenza sociale, uno dei sette figli proveniente da una famiglia alevita, ramo minoritario e eterodosso dell’Islam.
Originario della regione a maggioranza curda di Dersim, in Anatolia, è arrivato alla politica tardi, attorno ai 50 anni, procedendo a piccoli passi, coltivando il suo modesto profilo di burocrate come un tesoro. Gli è sempre stata riconosciuta una capacità straordinaria nel rialzarsi dopo le (numerose) sconfitte, con una costanza che perfino i suoi avversari non possono fare a meno di apprezzare. Si è fatto un nome parlando a bassa voce, con tono pacato e un sorriso da buon vecchio zio, parlando la stessa vecchia lingua politica di un partito esso stesso vecchio, quello appunto del padre fondatore della Turchia.
All’inizio della sua carriera politica, anche il look scelto contribuiva a formare la sua immagine: era individuato subito nella folla per il berretto dei lavoratori che indossava a dimostrazione della sua chiara scelta a fianco degli operai.
All’epoca si professava “socialdemocratico”, oggi insiste soprattutto sul “democratico”, esaltando le parole d’ordine “diritto, legge, giustizia”, lo slogan che lanciò nel 2017 quando intraprese la marcia dei 450 km, da Ankara a Istanbul, per protestare contro la condanna di uno dei suoi deputati a 25 anni di reclusione per “rivelazione di informazioni confidenziali” a un giornale di opposizione. Migliaia di persone lo seguirono, sembrava fosse giunta l’ora del cambio di guardia alla presidenza della repubblica. Ma non fu sufficiente: nelle elezioni del 2018 Erdogan vinse al primo turno.
In quell’occasione, però, fece una cosa che gli era estranea: si rifiutò di complimentare il presidente per la sua vittoria, sostenendo che non poteva felicitarsi perché aveva vinto “un uomo che non difende la democrazia”.
In realtà il suo comportamento era già diventato più “muscoloso” dopo il putsch fallito del 15 luglio del 2016, quando Erdogan, salvatosi, innestò la spirale repressiva che ha condotto la Turchia verso quel sistema politico che oggi viene definito una “democratura”, qualcosa fra la dittatura e la democrazia.
Ecco allora Kiliçdaroglu affermare in quel periodo che “abbiamo vissuto due colpi di stato: quello militare il 15 luglio, e quello civile, cinque giorni più tardi, con l’instaurazione dello stato di emergenza. Romperemo questo muro della paura”.
L’economia turca al centro della campagna elettorale
Sono trascorsi sette anni, per molti analisti pare sia giunto il tempo della rivincita.
Tuttavia sarà l’economia ad avere il ruolo più importante in questa rappresentazione. Come accade quasi sempre.
I numeri turchi sono molto brutti, a cominciare da quello dell’inflazione. Il tasso medio del 2022 è stato del 72,3%, con un picco dell’85,5% in ottobre; l’anno precedente era stato nello stesso periodo del 19,6%. Quanto alla politica monetaria, Erdogan, la cui influenza sulla Banca centrale turca si è accresciuta negli ultimi anni, continua a tenere bassi i tassi di interesse nella convinzione che sia la strada per fermare l’inflazione e stimolare la crescita. Senza risultati significativi al momento: se dieci anni fa un euro si scambiava con tre lire turche, oggi ne servono più di venti. Mentre la crescita nel 2022 è stata del 5,6%; certo, superiore al 5%, dato previsto dal Fmi, ma inferiore ai primi due trimestri dell’anno, rispettivamente 7,6% e 7,8%.
Il terremoto del 7 febbraio scorso, poi, è stato il colpo di grazia. Il sisma, devastando dieci province dell’Anatolia meridionale, ha provocato la più grave crisi umanitaria nella storia della Turchia moderna. I costi economici saranno enormi: per il recupero delle zone distrutte ci vorranno circa 103,6 miliardi di dollari, pari al 9% del Pil del 2023.
Kiliçdaroglu è stato molto attivo nei giorni seguenti al sisma. In un video, visto da venti milioni di persone, pullover nero su fondo nero, con un tono sobrio, ma che non ammette repliche, accusa Erdogan di essere il responsabile della tragedia in corso. Come pensa la maggioranza dei turchi.
Elezioni Turchia: le promesse elettorali di Kiliçdaroglu e le sue debolezze
A questo punto dobbiamo chiederci che cosa promette il “Gandhi turco” a chi sceglierà il “cambiamento” con la sua coalizione, contro la “continuità” di Erdogan.
Poche cose, ma dirompenti: uguaglianza tra sessi, giustizia indipendente, università autonome, riconciliazione sociale, restituzione alla memoria dei diritti umani calpestati nella storia della Repubblica, soprattutto nei confronti della popolazione curda. E ultima cosa, ma non ultima per importanza, la riapertura delle porte all’Europa.
Che cosa potrebbe impedire il successo agli oppositori di Erdogan?La prima debolezza sta proprio nell’alleanza, troppo eterogenea per non chiedersi quanto durerà. Il ritorno al parlamentarismo e l’opposizione a Erdogan sono gli unici collanti: il timore che i particolarismi possano prevalere a discapito della governabilità e della stabilità non sono campati in aria.
L’altro punto debole è proprio lui, Kiliçdaroglu: dovrà smentire l’adagio secondo il quale è un buon costruttore di re, ma non è un re.
Per quel che riguarda la prima fragilità, quella della coalizione eterogenea, si può dire che questo tipo di alleanza politica è diventato ordinario nelle democrazie, non è una questione che riguarda solo la Turchia: tenere in piedi una coalizione è per sua natura sinonimo di compromesso e fatica, non a caso sono le virtù che vengono richieste ai capi di questi tempi. Se infine Kiliçdaroglu, costruttore di re, diventerà re egli stesso, questo si potrà dire solo una volta che avrà indossato la corona.