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Elezioni, si vota in Francia ma si decide per l’Europa

“I francesi hanno perso la testa: del resto solo a questa conclusione si può giungere quando si legge, nelle classifiche internazionali, che la Francia si reputa più infelice dello Zimbabwe”. L’editoriale di Les Echos la dice lunga su come la Francia si presenta, ulteriormente scossa dall’attentato sugli Champs Elysées di giovedì sera, a un appuntamento elettorale chiave per il suo futuro e per quello dell’Europa. Sull’onda di Trump e di Brexit c’è chi teme il peggio, ma uno dei principali quotidiani francesi rincara la dose: “Se il Regno Unito ha Farage e gli Stati Uniti Trump, la Francia è l’unico Paese occidentale ad averne ben due di Trump, uno all’estrema destra e uno all’estrema sinistra”. Ogni riferimento a Marine Le Pen e a Jean-Luc Mélenchon, i due candidati più anti-sistema in uno scenario che già vede ben sette candidati su undici “fare a gara di demagogia e incoerenza”, non è casuale.

E stando agli ultimi sondaggi pubblicati prima del voto, non si può nemmeno escludere a priori (anche se è improbabile) che saranno proprio loro due a sfidarsi al ballottaggio del 7 maggio: i quattro candidati principali, compreso il repubblicano François Fillon e il liberal progressista Emmanuel Macron (l’unico candidato che crede fortemente in un futuro di Parigi nell’Unione), sono infatti tutti papabili, intorno al 20% di preferenze ciascuno. Leggermente sopra quella quota ci sono proprio Macron e Le Pen (secondo qualcuno ulteriormente rinforzata dai fatti di Parigi), che dunque dovrebbero essere i due favoriti della vigilia, ma il distacco nei sondaggi è troppo risicato per dare anche solo la minima certezza. “Nel Paese di Cartesio, i cittadini finiranno per votare a casaccio”, insiste Les Echos, che vede nei cinque blocchi da 20% (i quattro candidati principali e il blocco degli altri) il segnale di un risultato finale che potrebbe persino essere casuale, dettato dall’umore del momento e dalla fortuna.

Di certo c’è che a giocarsi molto in questa tornata non è solo la Francia ma tutta l’Europa, destinata a morire se Brexit fosse clamorosamente seguita da Frexit, come non hanno mancato di sottolineare i 25 economisti premi Nobel che hanno firmato un appello su Le Monde contro Marine Le Pen e l’uso strumentale che sta facendo delle loro teorie economiche ai fini della campagna elettorale. Tra i firmatari c’è infatti anche Joseph Stiglitz, noto euroscettico che però ammonisce: “Nel momento in cui l’Europa e il mondo fronteggiano prove senza precedenti, occorre più solidarietà, non meno. I problemi sono troppo seri per essere affidati a politici divisivi”. “Vi è una grande differenza – prosegue il documento con riferimento alla possibilità, che Le Pen vorrebbe far diventare realtà attraverso un referendum, che la Francia esca non solo dall’Ue ma anche dalla moneta unica – tra lo scegliere di non partecipare all’euro in prima battuta e uscirne dopo averlo adottato”.

Inutile dire che la comunità internazionale auspica una vittoria di Macron, già ministro dell’Economia con Hollande e ora leader di un movimento indipendente “che vuole prendere il meglio della sinistra, della destra e del centro”. Un progetto ambizioso, che sembra l’unico contraltare possibile alla foga populista, alimentata da crisi economica e terrorismo, che ha già trionfato nell’ultimo anno tra Uk e Usa. Trionfato poi fino a un certo punto, visto che le vittorie del referendum per Brexit e di Trump sono state risicatissime (anzi, la maggior parte dei cittadini statunitensi alla fine ha votato per Hillary Clinton), ma quello che conta – e che preoccupa – è il risultato finale. Un risultato appunto incertissimo e che comunque vada sarà clamoroso: mai la Francia, Paese storicamente segnato dal bipolarismo politico, aveva presentato una griglia di partenza così eterogenea e composta per tre quarti da partiti o movimenti non tradizionali (o comunque mai stati al governo). Addirittura, nel lotto dei quattro, non c’è – stando ai sondaggi – nemmeno spazio per Benoit Hamon, candidato del Partito socialista, che ha appena governato il Paese per cinque anni.

Ecco i punti principali dei programmi dei quattro candidati principali:

– MACRON

Se è vero che l’antieuropeismo è il filo conduttore della campagna francese, in testa ai sondaggi seppur di un soffio c’è però l’unico candidato espressamente europeista, l’ex ministro dell’Economia di Hollande. Macron, che secondo le proiezioni vincerebbe contro chiunque una volta raggiunto il ballottaggio (al contrario di Le Pen che è data perdente in tutte le combinazioni), è l’astro nascente della politica francese. Non ancora 40enne, è riuscito ad occupare un ampio spazio elettorale lasciato libero dagli estremismi che tanto vanno di moda: pur reduce dall’esperienza col governo Hollande, giudicato disastroso dalla maggior parte della cittadinanza, è stato capace di reinventarsi centrista, o per meglio dire liberal-progressista. Il suo equilibrio piace ai francesi, forse proprio perché tra i quattro candidati è quello che cambierebbe meno cose, soprattutto sul fronte internazionale.

Macron vuole che la Francia rimanga saldamente in Europa, che rispetti il patto di stabilità 3% nel rapporto deficit/Pil, è inoltre favorevole ai trattati commerciali atlantici con Usa e Canada (l’unico tra gli 11 candidati) e crede ancora fortemente nella Nato, anzi la lascerebbe così come è opponendosi a nuovi ingressi. L’ex banchiere dei Rotschild vorrebbe anche mantenere Schengen, lo ius soli, l’attuale legge sui simboli religiosi (vietati dal 2004 nelle scuole, il velo vietato dal 2010 nei luoghi pubblici), l’attuale e discussissima Loi Travail (il Jobs Act francese, che tutti gli altri 10 candidati vorrebbero invece rivedere). Anche sulle pensioni Macron è conservatore (è l’unico che le lascerebbe esattamente come sono), mentre le grandi novità del suo programma sono principalmente tre: riduzione del cuneo fiscale per le imprese, ma soprattutto tagli enormi alla spesa pubblica (attraverso in particolare la soppressione di 120mila impieghi) e l’abolizione della tassa sugli immobili per l’80% di quelli che la pagano.

– MELENCHON

Nato in Marocco da genitori franco-algerini e definito da Le Figaro “il Chavez francese”, vorrebbe tassare al 100% i redditi superiori ai 400mila euro annui (33mila euro al mese), ovvero di fatto vorrebbe mettere un tetto ai guadagni e aggiungere scalini fiscali (arrivare a 14 dai 5 attuali) in modo che chi dichiara il reddito massimo, ovvero 33mila euro al mese, paghi il 90% di imposte. Il leader di “La France insoumise”, laureato in filosofia, vuole anche tassare i francesi residenti all’estero: nel caso degli sportivi ha anche detto che in caso contrario non vestiranno più le maglie delle nazionali transalpine. Nel suo pacchetto c’è anche l’aumento del salario minimo (SMIC) dagli attuali 1.150 euro circa netti a 1.300, e l’abolizione del Senato. Dagli ultimissimi sondaggi pare però che il candidato di estrema sinistra, comunque sorprendente nel superare nei consensi il candidato ufficiale del Partito socialista Benoit Hamon, è quello meno accreditato per il raggiungimento del secondo turno.

– LE PEN

La leader del Front National, strafavorita all’inizio della campagna elettorale, è stata decisamente risucchiata nella bagarre, ma è comunque difficile pensare che non raggiunga almeno il ballottaggio, anche in scia agli ultimi attacchi terroristici di Parigi. Le Pen propone un programma marcatamente populista e anti-europeo: vuole abbassare – così come Mélenchon – l’età pensionabile a 60 anni (dai 62 attuali), riservare le politiche sociali (il contributo di solidarietà per i più poveri, i disabili, e l’assegnazione delle case popolari) ai soli cittadini francesi, abolire lo ius soli e inasprire il controllo delle frontiere e la concessione del diritto di asilo, abolire Schengen e il PAC (politiche agricole comuni) per tornare a una politica agricola nazionale. Ma soprattutto la figlia d’arte (il padre Jean-Marie, ora quasi 90enne, raggiunse uno storico ballottaggio nel 2002, perdendo poi da Chirac con un misero 17% al secondo turno) auspica un ritorno al franco e se eletta proporrà un referendum per l’uscita dall’Unione europea.

– FILLON

Nel gruppo di testa c’è infine François Fillon, ex premier durante la presidenza Sarkozy e sotto tiro ormai da mesi per le vicende giudiziarie relative agli incarichi fittizi assegnati a moglie e figli: il Penelopegate però non sta impedendo al candidato gollista di rimanere in gioco. Fillon è moderatamente europeista ma è soprattutto il candidato più liberale, quello che propone cambiamenti più drastici sul fronte del lavoro e delle politiche sociali a favore di una riduzione della spesa pubblica: si parte dal taglio di mezzo milione di funzionari pubblici fino all’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni.

Tra i candidati papabili Fillon è ad esempio l’unico che vorrebbe aumentare l’Iva, abolire l’imposta di solidarietà sulle grandi fortune (una tassa che riguarda 340mila contribuenti con reddito superiore a 1,3 milioni, e che frutta alle casse dello Stato 5,2 miliardi l’anno), e addirittura a rendere ancora più favorevole ai datori di lavoro la già criticatissima Loi Travail. Il candidato repubblicano suggerisce anche di dire addio alla storica legge delle 35 ore, la durata di lavoro settimanale più bassa d’Europa e che Mélenchon vorrebbe persino ridurre a 32: Fillon suggerisce di lasciarla agli accordi tra lavoratore e azienda.

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