E’ andato tutto secondo copione: le solite accuse di brogli (stavolta anche documentate dalle webcam presenti nei seggi), l’immancabile blitz delle femministe dell’associazione ucraina Femen, e, soprattutto, il vincitore annunciato: Vladimir Putin ha le mani sulla Russia ininterrottamente dal 2000. Fino al 2008 come presidente, poi, lasciato lo scettro al delfino Medvedev, come primo ministro, e da oggi nuovamente a capo dello Stato dopo aver raccolto il 63,75% dei consensi (in calo rispetto al 71% del 2004, ma comunque 45,1 milioni di voti, persino più di quanto previsto dagli exit-poll).
Unico fuori-programma del trionfo scontato, le lacrime commosse del protagonista: quando in serata Putin si è presentato nella piazza del Maneggio, a Mosca, per annunciare la vittoria alle migliaia di sostenitori che lo invocavano, ha mostrato un lato di sè nuovo. L’unico: tutto il resto è purtroppo storia nota, accuse trite e ritrite, sospetti a non finire. Ad incominciare dal fattore che più preoccupa la comunità internazionale: la credibilità di questo ennesimo plebiscito e lo stato di salute della democrazia in Russia, Paese di 144 milioni di abitanti spalmati su sei fusi orari, da qualche tempo considerato uno dei famosi “Brics”, ovvero gli Stati mondiali con più alto tasso e potenziale di crescita. E i numeri lo confermano: sfruttando in particolare l’export di materie prime (il petrolio influisce da solo per il 60% delle esportazioni), il Pil nel 2011 è ancora cresciuto del 4,2%, e il rapporto col debito pubblico è contenuto al 12%, uno dei più bassi del mondo. Non solo: la Borsa di Mosca è nel 2012 la regina mondiale (+24%) e per l’anno in corso la crescita del prodotto lordo è confermata sul +3,9%, registrando una ripresa anche della produzione industriale, storicamente frenata dalle importazioni.
Niente male per un Paese che nel 1999, nell’ultimo anno dell’era Eltsin, era sull’orlo del fallimento e prendeva atto di un’inflazione che viaggiava al 37% annuo. Non che i meriti siano tutti di Putin, ma più che altro dell’esplosione dei prezzi del barile di petrolio: tant’è vero che nel 2009, quando i prezzi dei carburanti sono crollati, l’economia russa è scesa del 7%, non alla pari di quanto fatto dagli altri Paesi emergenti, che in virtù di sistemi più diversificati non hanno affatto interrotto la loro corsa sfrenata verso l’arricchimento.
Tuttavia il boom delle materie prime ha contribuito all’emancipazione della middle class di Mosca e dintorni: tra il ’99 e il 2007 i consumi sono cresciuti del 15%, e di conseguenza anche le importazioni, quintuplicate nello stesso periodo. Inoltre, pur confermandosi che la maggior parte della ricchezza rimane saldamente nelle mani delle oligarchie, si è ridotta la percentuale di povertà: dal 20% del 2003 al 16% del 2011.
Ma non è tutto oro quel che luccica. O meglio, non sta scritto da nessuna parte che in nome di tutto questo, dei mercati o della cosiddetta realpolitik, la democrazia venga messa nel cassetto. Innanzitutto, la campagna elettorale di Putin è stata drogata da regole particolarmente restrittive, che farebbero gridare allo scandalo l’inventore del Porcellum: due milioni le firme da raccogliere solo per presentarsi alle elezioni (se non si hanno seggi in Parlamento, dove lo sbarramento è del 7% e dove sono praticamente vietati i cartelli elettorali). E sempre che il candidato non sia troppo sgradito a Wladimir, come insegna il caso del magnate del petrolio Mikhail Khodorkovsky, feroce critico del Cremlino in carcere dal 2003 e per il quale Medvedev – passate le elezioni e il rischio di averlo come avversario, si potrebbe dire – ha ordinato alla Procura la riapertura del caso.
A parte la legittimità nel “chiedere” un’iniziativa alla magistratura, che dovrebbe essere indipendente, questa vicenda è solo una delle tante che getta ombra sul modus operandi della premiata ditta Putin-Medvedev: regolamenti di conti, insabbiamenti, e poi “slanci” di apertura nei confronti delle opposizioni, in questo caso accontentate solo per placare le contestazioni dopo le discusse elezioni legislative del 4 dicembre. Per non parlare poi della libertà di stampa, che in Russia rimane più di una chimera: il primo ministro uscente non ha potuto fare campagna elettorale nelle piazze per timore dei fischi, ma ha imperversato in tv, dove i tg di tutti i canali hanno dato spazio alla propaganda senza rispettare alcuna regola di par condicio.
È vero che nelle grandi città, Mosca in primis, tramite il web il dissenso popolare si è fatto parecchio sentire (anche se solo da metà dicembre) ed ha organizzato manifestazioni che hanno avuto risalto anche all’estero, ma è altresì vero che il 70% dei russi vive lontano dalla capitale e dalle altre città principali, ed è perciò raggiungibile solo attraverso la televisione. Per non parlare del fatto che l’isolamento geografico non aiuta di certo il controllo mediatico sugli eventuali brogli: basti pensare che in Cecenia le percentuali a favore di Putin e del suo partito Russia Unita sono sempre sospettamente bulgare (oltre il 90%). Sulla libertà di stampa c’è poi il velo pietoso della serie agghiacciante – e impunita – di omicidi ai danni dei giornalisti che si sono opposti al regime, in particolare quelli che indagavano sulla guerra in Cecenia. Si contano in tutto più di 100 morti quantomeno sospette: l’ultima è Anastasia Baburova della Novaya Gazeta, mentre il primo, nel 2000 in Georgia, fu l’italiano Antonio Russo di Radio Radicale.
E la comunità internazionale come intende reagire a tutto questo? “Non c’è stata reale competizione e l’abuso di risorse governative ha garantito che il vincitore delle elezioni non sia mai stato in dubbio”, dichiarano senza fronzoli in un comunicato gli osservatori dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce).
Indignazione e preoccupazione arrivano poi unanimi da tutta la stampa internazionale, anche se l’analisi più interessante è quella del Financial Times: “Ciò che è chiaro – scrive il quotidiano finanziario – è che la popolarità di Putin è in declino. Brogli a parte, i sondaggi pre-elettorali hanno suggerito che il presidente ora gode di meno del 50% del sostegno a Mosca e San Pietroburgo, le capitali politiche del Paese. La sua base resta forte solo nelle campagne, ma anche lì è strisciante la disillusione”.
“Il malcontento – prosegue FT – non è economico. I russi vivono molto meglio oggi rispetto a quando Putin è diventato presidente a 12 anni fa, grazie ai prezzi del petrolio alle stelle, e la classe operaia ha tratto benefici, ed è quindi meno propensa a scendere in piazza”. Il pericolo arriva però dalla classe media, sì arricchita, ma “preoccupata dalla corruzione dilagante, dal clientelismo, dalla mancanza di rappresentanza e di tutele giuridiche”. “L’aumento del tenore di vita – osserva FT -, che una volta anestetizzava i russi di fronte agli aspetti negativi, sta ora progressivamente perdendo i suoi effetti”.
Per il quotidiano finanziario inglese gli scenari più probabili sono due: che il presidente appena eletto accontenti la classe media, irritando però le oligarchie che da sempre lo sostengono e rischiando che queste ultime promuovano figure di riferimento alternative; oppure, più verosimilmente secondo FT, che il Cremlino pianifichi subito un giro di vite post-elettorale contro le opposizioni e conquisti popolarità attraverso una scellerata politica di spesa pubblica che metterebbe a rischio la stabilità fiscale del Paese.
E l’Occidente? Secondo il Financial Times, “deve tracciare una linea sottile, invogliando la Russia ad essere un membro responsabile della comunità internazionale. Senza interferire, deve fare tutto il possibile per contribuire a garantire che l’era Putin si concluda non in disordine, ma con una transizione tranquilla ad una fase più democratica, basata su nuove regole per il futuro”.