Daniel Noboa, 37 anni, sarà ancora il presidente dell’Ecuador. Vincitore delle elezioni anticipate di fine 2023, l’esponente della destra è stato confermato dagli elettori nel secondo turno delle presidenziali che si sono svolte ieri ed erano sulla carta incertissime, poiché nel primo turno di un mese fa il presidente uscente e la sfidante Luisa Gonzalez avevano sostanzialmente pareggiato (20 mila voti soltanto di differenza), anche se Noboa aveva denunciato irregolarità da parte dell’opposizione.
Le urne hanno registrato una partecipazione altissima, di oltre l’83%, e sono state tenute sotto attenta osservazione da ben 485 inviati internazionali, anche dall’Europa, visto il clima di altissima tensione che aveva portato il governo a decretare, alla vigilia del voto, lo stato di emergenza. In effetti è stata una domenica tutt’altro che tranquilla, con 634 arresti in tutto il Paese e 56 armi da fuoco sequestrate. L’esercito era presente in tutti i seggi e gli elettori sono stati perquisiti all’ingresso. In questo scenario, l’ha spuntata con un buon margine il conservatore Noboa, già due anni fa eletto presidente più giovane della storia del suo Paese, e definito dalla stampa sudamericana un mix tra l’argentino Javier Milei per le politiche economiche liberiste e il salvadoregno Nayib Bukele per la durissima repressione della criminalità.
Un rampollo delle banane
Noboa è il rampollo del magnate Alvaro Noboa Pontòn, conosciuto in Ecuador come “il magnate delle banane“, nel senso che era il proprietario di una società di export del frutto tropicale che però fu accusata di essere coinvolta nel traffico di cocaina. Questa e altre attività Noboa senior le ha lasciate in eredità al figlio attraverso società offshore a Panama, secondo quanto emerso dall’inchiesta Pandora Papers. Con un background di questo tipo, il presidente ecuadoregno non poteva non trovare una connessione con l’omologo statunitense Donald Trump, che infatti in piena campagna elettorale lo ha ricevuto a Mar-A Lago, in Florida, dove Noboa ha incassato una promessa di aiuto nella lotta al narcotraffico, in cambio di una sponda sui dazi.
Via i dazi sulle auto Usa
Di recente il sudamericano aveva proposto al Congresso di rimuovere dalla Costituzione il divieto di istituire basi militari straniere, come quella che Washington aveva fino al 2009 nel porto di Manta per i voli antidroga: “Siamo aperti anche alle basi internazionali. Gli Usa ci aiuteranno a pattugliare non solo il narcotraffico, ma anche i problemi di pesca illegale che tanto ci toccano”, ha detto di ritorno dalla residenza del tycoon. E per “dare un segnale positivo di cooperazione economica e volontà di dialogo”, da Quito è arrivato un regalo al mercato automobilistico statunitense: il Comitato per il commercio estero dell’Ecuador (Comex) ha deciso di ridurre almeno fino a dicembre 2025 i dazi sulle importazioni di veicoli dagli Stati Uniti dal 35-40% al 10%.
Ecuador graziato dai dazi di Trump
Del resto l’Ecuador e gli altri Paesi sudamericani sono stati di fatto graziati dalle tariffe commerciali disposte dalla Casa Bianca, che le aveva a sua volta applicate solo al 10% per i Paesi dell’area, a differenza di quanto fatto con l’Unione europea (in sospeso) e soprattutto con la Cina. Anzi Noboa ha persino cavalcato la notizia in campagna elettorale, sostenendo che i dazi trumpiani finiranno per rendere l’Ecuador più competitivo, in quanto impatteranno su mercati concorrenti. L’Ecuador è però legato agli Usa anche per via dei migranti, che sono centinaia di migliaia in territorio yankee e le cui rimesse di denaro verso il Paese d’origine valgono quasi il 5% del Pil: in questo caso i respingimenti di massa attuati da Washington rappresentano un vero e proprio problema economico, per un Paese che è già in recessione e che l’anno scorso ha dovuto chiedere al Fondo Monetario Internazionale un prestito da 4 miliardi di dollari.
Forse Noboa spera adesso in qualche investimento nordamericano su un territorio che è pur sempre ricco di materie prime, compreso il petrolio, ma dove ad oggi solo lo 0,3% del Pil è rappresentato da investimenti esteri (in Brasile sono il 3%, in Colombia il 4,6%). Infine ma non da meno, l’Ecuador è un Paese che adotta il dollaro statunitense come valuta ufficiale dagli inizi degli anni 2000, e nel tempo la scelta si è rivelata disastrosa.
Un’economia dollarizzata
L’economia era infatti stata dollarizzata per combattere l’iperinflazione degli anni ’90, quando il dato aveva raggiunto il 95,5% portando il Paese nella miseria e costringendo milioni di persone ad emigrare, direzione Usa ma soprattutto Europa. All’inizio la mossa sembrò funzionare: l’inflazione scese e la vita delle classi medie migliorò, ma alla lunga l’economia cominciò a diventare troppo dipendente dal prezzo del petrolio e di pochi altri prodotti da esportazione. Tra questi, non a caso, le banane che hanno fatto ricca la famiglia Noboa. Sulla “desdolarización” aveva invece puntato la sfidante Luisa Gonzalez, ma con prudenza, poiché il tema è delicato e le élite del Paese, che col dollaro si sono arricchite, non vedrebbero di buon occhio un totale passo indietro: la candidata dell’opposizione aveva dunque parlato di “dollarizzazione migliorata”. Alla fine però ha vinto il rampollo della dinastia delle banane, alleato di Trump.