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Elezioni americane: verso un’amministrazione bipartisan? Tutti i precedenti

Stefano Luconi, docente di storia americana a Padova che sta seguendo con attenzione le elezioni americane, evidenzia l’importanza di una dichiarazione di Kamala Harris, la candidata del Partito democratico alla Casa Bianca. Ecco perché

Elezioni americane: verso un’amministrazione bipartisan? Tutti i precedenti

Nella sua prima intervista rilasciata dopo il conseguimento formale della candidatura democratica la Harris ha affermato che, se sarà eletta, nominerà nel governo un esponente del partito repubblicano per “assicurare diversità di opinioni” all’interno della sua amministrazione e a riprova della sua volontà di essere “la presidente di tutti gli americani”.

Nel mirino il voto dei repubblicani moderati

La sua dichiarazione è, in realtà, principalmente frutto di una strategia volta a strappare a Donald Trump il voto dei repubblicani moderati per vincere le elezioni. Nondimeno, le parole di Harris sono sembrate una ventata di novità in un contesto che negli anni più recenti è stato caratterizzato dalla sostanziale mancanza di dialogo nonché da una contrapposizione netta e apparentemente insanabile tra il partito democratico e quello repubblicano, soprattutto dopo che quest’ultimo è stato egemonizzato da Trump.

Non per niente, nella sua veste di istigatore oltreché di beneficiario in passato degli scontri partitici frontali e delle logiche del muro contro muro, Trump si è detto addirittura pronto, qualora conquistasse un secondo mandato, a destituire tutti i funzionari federali che non mostrassero assoluta lealtà nei suoi confronti, perfino quelli assunti attraverso concorsi pubblici e non reclutati dai suoi predecessori democratici, che non potrebbero essere legalmente licenziati senza giusta causa, cioè per motivi esclusivamente di natura politica.

L’intenzione di Harris è, comunque, meno dirompente e innovativa di quanto possa apparire. Se fosse attuata, infatti, non rappresenterebbe la prima volta in cui il governo federale avrebbe al suo interno un membro di un partito diverso da quello del presidente.

Thomas Jefferson nell’amministrazione di John Adams

Il primo caso si verificò quasi all’alba dell’esistenza degli Stati Uniti come nazione sovrana.

Durante il suo mandato alla presidenza tra il 1797 e il 1801 il federalista John Adams si ritrovò come vice il democratico-repubblicano Thomas Jefferson, non per propria scelta, ma per vincolo costituzionale.

Al tempo, infatti, le candidature per la presidenza e la vicepresidenza non erano distinte e la carica di vice era assegnata al primo dei non eletti alla presidenza. L’esito della coabitazione fu disastroso. Anziché collaborare con Adams, che lo aveva sconfitto nelle elezioni del 1796, Jefferson si concentrò sul preparare il terreno per prendersi la rivincita sul rivale e sconfiggerlo nel 1800, cercando in particolare di sabotare la politica estera filo-britannica del governo.

Questa esperienza risultò così devastante che la Costituzione venne modificata in modo da separare l’elezione del presidente da quella del vicepresidente ed evitare che in futuro a detenere le due cariche fossero membri di partiti differenti.

La scelta di Andrew Johnson da parte di Abraham Lincoln

La più grave emergenza nazionale nella storia degli Stati Uniti, la guerra civile che dilaniò il Paese tra il 1861 e il 1865, produsse il secondo esempio rilevante di governo con aspetti bipartisan. In vista delle elezioni del 1864, il presidente repubblicano Abraham Lincoln, al potere nel Nord, cercò di dare un segnale di disponibilità alla riconciliazione con il Sud ribelle, che era a un passo dalla sconfitta sul campo di battaglia, anche allo scopo di affrettarne i tempi della resa militare.

Per dimostrare che non avrebbe imposto una pace punitiva e avrebbe tenuto in considerazione le posizioni dei confederati, Lincoln volle che il suo vice fosse un politico democratico di uno Stato meridionale e secessionista, l’ex senatore del Tennessee Andrew Johnson. Neppure in questo caso, però, l’operazione si rivelò politicamente produttiva.

Dopo l’assassinio di Lincoln, Johnson gli subentrò alla presidenza e si scontrò per l’intera durata del mandato con i membri del suo governo, tutti repubblicani. Il principale motivo di contrasto fu la politica nei confronti degli schiavi afroamericani che erano stati liberati con l’abolizione dello schiavismo alla fine della guerra civile.

I repubblicani promossero provvedimenti per affrettare la loro integrazione nella società, mentre Johnson era favorevole a tenerli ai margini, avallando la segregazione razziale. Lo scontro culminò quando Johnson destituì il segretario del dipartimento della Guerra, Edwin Stanton, e il partito repubblicano rispose aprendo una procedura di impeachment contro il presidente, sia pure senza riuscire a raccogliere i voti necessari per rimuoverlo dalla Casa Bianca.

David M. Key nel gabinetto di Rutherford B. Hayes

In un altro caso, invece, la formazione di un governo con un membro di un partito differente da quello del presidente servì effettivamente ad attenuare le tensioni e a promuovere la riconciliazione nazionale.

L’esito delle elezioni del 1876 per la Casa Bianca, che avevano visto il successo del repubblicano Rutherford B. Hayes, fu duramente contestato dal suo antagonista democratico, Samuel J. Tilden, che accusò il vincitore di aver fatto largo ricorso a brogli per conquistare alcuni Stati del Sud.

La certificazione dell’elezione di Hayes rimase bloccata per settimane e si temette addirittura lo scoppio di una nuova guerra civile. Alla fine fu raggiunto un accordo in base al quale Tilden riconobbe la sconfitta in cambio di alcune concessioni da parte di Hayes, tra cui la nomina di un democratico del Sud nel suo gabinetto.

Il prescelto fu David M. Key, a cui fu assegnato il dipartimento delle Poste, un dicastero di scarsissimo peso dal quale riuscì ad abbassare i toni dello scontro tra i partiti, ma non poté influenzare la politica del governo in maniera significativa.

Henry L. Stimson e Frank Knox nell’amministrazione di Franklin D. Roosevelt

Una successiva emergenza nazionale condusse a un ulteriore esperimento di amministrazione bipartisan. Nel luglio del 1940 il presidente democratico Franklin Delano Roosevelt nominò due repubblicani nel proprio governo: Henry L. Stimson al dicastero della Guerra e Frank Knox a quello della Marina militare. Il primo era stato il segretario di Stato di Herbert Hoover, che Roosevelt aveva battuto nelle elezioni del 1932.

Il secondo era stato il candidato repubblicano alla vicepresidenza in quelle del 1936, che avevano visto una seconda vittoria di Roosevelt. Poche settimane prima dell’investitura di Stimson e Knox, la Francia si era arresa alla Germania nel corso della seconda guerra mondiale.

Mentre gli Stati Uniti erano ancora neutrali nel conflitto, Roosevelt aveva bisogno di soverchiare l’orientamento isolazionista di parte dell’opinione pubblica americana. L’assegnazione di due dipartimenti di rilievo bellico a esponenti repubblicani internazionalisti gli servì per creare un consenso bipartitico alla sua politica di riarmo nazionale e di invio di aiuti militari al Regno Unito, che al tempo era rimasto l’unico Paese a fronteggiare il nazismo sul campo di battaglia.

Questa volta l’inserimento nel governo di politici dell’altro partito funzionò alla perfezione, sia nel restante anno e mezzo circa della neutralità americana sia dopo l’ingresso degli Stati Uniti in guerra. Del resto, pochi giorni dopo l’inizio della seconda guerra mondiale, era stato proprio Knox, in un editoriale pubblicato sullo “Chicago Daily News” il 12 settembre 1939, a invitare Roosevelt a formare un “governo di unità nazionale” per affrontare l’emergenza bellica in un clima di concordia politica, nominando alcuni repubblicani autorevoli nel gabinetto. 

John B. Connally traghettatore di voti per Richard M. Nixon

Altre esperienze di amministrazioni con tratti di bipartisan ebbero motivazioni apertamente elettoralistiche.

Per esempio, nel 1971 il repubblicano Richard M. Nixon nominò come segretario del Tesoro l’ex governatore democratico del Texas John B. Connally (l’uomo che stava seduto a fianco di John F. Kennedy e che era rimasto gravemente ferito nell’attentato in cui il presidente era stato ucciso il 22 novembre 1963) per conquistare il sostegno dei democratici conservatori in vista della propria campagna per un secondo mandato nel 1972.

In tale occasione, Connally assunse la guida di un comitato chiamato “Democratici per Nixon” e assolse pienamente al compito di traghettatore di voti dal partito democratico a quello repubblicano. Nixon, infatti, venne rieletto con ampio margine, raccogliendo il 60,7% del voto popolare e la maggioranza in 49 dei 50 Stati dell’Unione.

William Cohen segretario alla Difesa con Bill Clinton

Il democratico Bill Clinton, invece, tornò a effettuare una nomina legata a valutazioni di strategia politica, anziché al tentativo di ampliare la propria base elettorale. Dopo aver ottenuto la conferma alla Casa Bianca nel 1996, quando qualsiasi considerazione sul voto nel 2000 era divenuta superflua perché il limite costituzionale dei due mandati gli impediva una terza candidatura, Clinton affidò la carica di segretario della Difesa nella sua seconda amministrazione al repubblicano William Cohen, che aveva appena concluso diciotto anni al Senato federale come membro della commissione sulle Forze Armate.

Criticato dai repubblicani per la presunta mancanza di una chiara visione strategica in Bosnia dopo i bombardamenti effettuati contro la fazione serba che avevano messo fine alla guerra civile nel 1995, Clinton volle costruirsi un sostegno bipartisan per eventuali nuove iniziative militari, come sarebbe stata la cosiddetta guerra “umanitaria” per il Kosovo nel 1999, per ridurre gli effettivi delle forze armate statunitensi e chiudere alcune basi militari in modo da contenere la spesa federale, per un primo allargamento della NATO a Est – che avrebbe portato all’adesione al Patto Atlantico da parte di Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria nel 1999 – e per rilanciare le trattative con la Russia sulla riduzione di missili intercontinentali e testate nucleari.

Anche se questi negoziati non produssero un nuovo trattato con Mosca sulle armi strategiche, il fallimento fu imputabile a divergenze con il presidente russo Boris El’cin anziché all’opposizione dei repubblicani.

Cohen, infatti, fu capace di estendere il consenso per la politica di difesa di Clinton al di fuori del partito democratico, pur esprimendo talvolta il proprio scetticismo riguardo al prosieguo delle missioni umanitarie intraprese dal presidente all’estero.

Le prospettive di Harris

Alla luce di questi precedenti, l’annuncio di Harris costituisce un connubio tra la strategia di Lincoln e quella di Nixon, in quanto pare voler di combinare l’esigenza di una riconciliazione politica nazionale, per superare la polarizzazione partitica fomentata da Trump, con il bisogno di ottenere il voto dei repubblicani meno estremisti per conquistare la Casa Bianca.

Qualora Harris riuscisse a centrare il secondo obiettivo, il conseguimento del primo dipenderà molto dalla figura su cui cadrà la sua scelta. Tra i nomi che circolano ci sono quelli degli ex membri della Camera dei Rappresentanti Adam Kinzinger e Liz Cheney, due dei dieci repubblicani a votare a favore dell’impeachment di Trump per aver incitato l’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio 2021.

Entrambi, però, mancano delle caratteristiche per prestarsi alle necessità di Harris. Da un lato, infatti, sono risultati talmente invisi al loro stesso partito da esserne stati formalmente espulsi e, quindi, a stento la presenza di uno dei due in un’ipotetica amministrazione Harris riuscirebbe a riportare l’armonia tra democratici e repubblicani.

Dall’altro, si tratta comunque di iperconservatori che difficilmente potrebbero collaborare in modo costruttivo con una presidenza democratica. Per esempio, pur contestando i comportamenti personali di Trump, quando era al Congresso, Kinzinger sostenne circa il 90% dei disegni di legge fatti presentare dall’allora presidente.

Diverso sarebbe il caso del senatore dello Utah Mitt Romney, già candidato alla presidenza contro Barack Obama nel 2012. Oltre a essere l’unico repubblicano ad aver votato per la rimozione di Trump a causa del cosiddetto Ucrainagate, Romney si schierò nel 2020 con il movimento Black Lives Matter al tempo delle proteste per l’uccisione di George Floyd da parte di un agente di polizia, è favorevole a limitare la diffusione delle armi e ha recentemente elogiato Joe Biden per la decisione di rinunciare alla candidatura per un secondo mandato.

Romney, tuttavia, non sembra intenzionato a continuare a occuparsi di politica e, infatti, ha comunicato che si ritirerà dal Senato alla conclusione della legislatura in corso.

Però, la svolta moderata intrapresa da Harris alla convention di Chicago (promessa di tutelare la sicurezza dei confini rispetto all’immigrazione irregolare, impegno a rafforzare il primato militare globale statunitense, abbandono dell’opposizione al fracking) potrebbe indurre altri repubblicani a entrare in una sua eventuale amministrazione.

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Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).

Libri
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle
Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle

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