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Elezioni americane: a che servono e come funzionano le convenzioni dei partiti e quanto pesa la vicepresidenza

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Dopo primarie, modalità di voto e finanziamento dei candidati, oggi parleremo con il prof. Stefano Luconi, docente di Storia e istituzioni delle Americhe all’Università di Padova e autore con goWare di un libro-guida alle prossime elezioni presidenziali, delle convenzioni nazionali dei partiti democratico e repubblicano per la designazione del candidato alla presidenza e alla vicepresidenza, il cosiddetto ticket elettorale che si confronterà nelle elezioni presidenziali di novembre.

Affronteremo anche il delicato tema del ruolo e dell’importanza della vicepresidenza.

Un superbowl politico

Le convenzioni nazionali sono un grande evento politico paragonabile, per gli elettori, a quello che rappresenta, per gli sportivi, la finale del superbowl. In quell’occasione i partiti, a giochi praticamente fatti per i ticket elettorali, mostrano la loro potenza di fuoco mediatica in vista delle presidenziali di qualche mese dopo. È di fatto l’inizio della campagna elettorale.

Quest’anno le due convenzioni si terranno, quella repubblicana, dal 15 al 18 giugno al Fiserv Forum di Milwaukee (Wisconsin) e, quella democratica, dal 19 al 22 agosto allo United Center di Chicago (Illinois).

Nella storia ci sono state delle convention memorabili. Forse la più memorabile è la convention democratica di Chicago di un anno fatidico, il 1968. Tenutasi a due mesi dall’assassinio di Robert Kennedy e senza il presidente in carica Lyndon Johnson che aveva rinunciato a ricandidarsi, fu caratterizzata da scontri durissimi tra manifestanti pacifisti e polizia colpevole di cariche violente.

Nel 2020, prodotto da Netflix, è uscito Il processo ai Chicago 7, un film scritto e diretto da una figura di primo piano di Hollywood come Aaron Sorkin, il quale ricostruisce gli scontri di Chicago attraverso il processo intentato a 7 attivisti accusati di esserne i responsabili.

Una convention memorabile, nell’altro campo politico, è stata quella repubblicana del 1980 a Detroit con il discorso di accettazione di Ronald Reagan che ha definito il perimetro della piattaforma del Partito repubblicano fino a Trump.

La vicepresidenza

Si discute e si è discusso molto sul ruolo, sull’importanza e sul significato della vicepresidenza. Senza entrare nel merito di questo denso dibattito politico e istituzionale, si può dire che nelle elezioni di novembre la questione della vicepresidenza assume un aspetto rilevante per l’età e anche per l’eredità politica dei probabili candidati, Biden 81 anni e Trump 78.

I repubblicani hanno già iniziato a dire che le elezioni di novembre non saranno uno scontro tra Biden e Trump, ma tra Kamala Harris, la vicepresidente democratica, e Trump viste le condizioni fisiche e cognitive di Biden.

Nella storia degli Stati Uniti sono stati 9 i vicepresidenti subentrati nella carica presidenziale, mentre sono 10 i vicepresidenti che sono poi diventati presidenti mediante elezioni.

In campo repubblicano, probabilmente, il vicepresidente sarà la figura che potrebbe prendere l’eredità del trumpismo, un progetto politico che ha cambiato la natura stessa del partito repubblicano modellata sull’esperienza di Reagan.

Trump ha dichiarato a Fox di avere già fatto la sua scelta, ma di non rilevarla. Tra le persone papabili non ci sarà certamente Mike Pence, vicepresidente nella prima amministrazione Trump. Ci sono però molte donne candidate di vaglia in campo conservatore come la governatrice del South Dakota Kristi Noem, la rappresentante dello Stato di New York Elise Stefanik, la discussa Marjorie Taylor Greene rappresentate della Georgia che proviene dal QAnon o la stessa Nikki Haley, quest’ultima nel caso che Trump volesse avvicinare l’elettorato più moderato.

Vi terremo informati degli sviluppi.

Sulla vicepresidenza e sui ruoli suppletivi della presidenza ci sono anche delle serie TV gradevoli e anche istruttive come la satirica e premiatissima Veep, prodotta da HBO e disponibile su NowTV, o Designated Survivor (Netflix) o ancora House of Cards dove la bravissima Robin Wood interpreta l’ascesa politica di Claire Underwood da First lady a vicepresidente e poi a presidente.

Professor Luconi, che cosa sono e a che cosa servono a fini pratici le convenzioni nazionali?

“Le convenzioni nazionali conferiscono le nomination dei partiti per la presidenza e la vicepresidenza. Per conquistare l’investitura, gli aspiranti devono ottenere la maggioranza assoluta dei voti dei delegati (1.895 per i democratici e 1.215 per i repubblicani)”.

Come sono scelti questi candidati?

In larga misura i delegati sono eletti, cioè sono assegnati ai diversi candidati alla Casa Bianca in base ai risultati che ottengono nelle primarie e nei caucus. Solo in piccolissima parte – i cosiddetti superdelegati – sono designati in forza delle cariche pubbliche o di partito ricoperte. I delegati eletti sono vincolati a sostenere il candidato a cui sono stati attribuiti, mentre i superdelegati possono votare per chi vogliono”. 

Quanto pesano questi superdelegati?

“Pesano o almeno pesavano. Nel 2016 le preferenze dei superdelegati contribuirono alla vittoria di Hillary Clinton su Bernie Sanders, popolarissimo tra la base del partito ma inviso al suo vertice perché ritenuto troppo radicale. Affinché non succeda che il voto dei dirigenti alle convenzioni prevarichi sulle scelte degli elettori nelle primarie e nei caucus, il numero e il ruolo dei superdelegati è stato nel tempo ridimensionato. Dal 2020 i superdelegati non possono più partecipare alla prima votazione della convenzione democratica, a meno che il suo esito non sia scontato”.

Se l’esito delle convenzioni appare scontato dopo le primarie, che senso hanno questi raduni?

“Da quasi mezzo secolo, le convenzioni si sono ridotte a mere passerelle mediatiche perché, all’apertura, c’è sempre stato un candidato che disponeva già della maggioranza assoluta dei delegati. Oggi servono soprattutto come momento per promuovere i candidati attraverso i media”.

È mai successo che si sia arrivati a una convenzione senza un candidato con una tale maggioranza?

“L’ultima volta è accaduto alla convenzione repubblicana del 1976, iniziata senza che né il presidente in carica Gerald Ford, alla fine assegnatario della candidatura, né il suo sfidante Ronald Reagan avessero un numero sufficiente di delegati per affermarsi al primo scrutinio. Ma in precedenza era questa la norma. Nel 1924 i delegati democratici impiegarono ben 103 votazioni per designare John W. Davis. Per Woodrow Wilson ce ne vollero 46 nel 1912 e per James Cox 44 nel 1920. Le convenzioni erano state talvolta teatro non solo di divisioni laceranti nel dibattito, ma anche di scontri fisici”.

Come in quella democratica del 1968?

“Sì. In effetti a Chicago del 1968 la convenzione democratica vide violente colluttazioni fuori dalla sua sede tra la polizia e gruppi di pacifisti che chiedevano l’approvazione di un programma elettorale per il ritiro incondizionato degli Stati Uniti dal Vietnam. In anni più recenti, alle convenzioni al massimo si è discusso sulla selezione dei candidati alla vicepresidenza”.

Parliamo della vicepresidenza. Che carica è?

“È una carica che gode, sulla carta, di scarse prerogative. Il vicepresidente presiede il Senato, ma può votare solo quando si verifica una situazione di parità, una condizione che è comunque occorsa spesso nel primo biennio dell’amministrazione Biden quando i repubblicani e i democratici disponevano entrambi di 50 seggi. Inoltre, il vicepresidente subentra automaticamente all’inquilino della Casa Bianca, se il presidente non può più svolgere le sue funzioni per morte, dimissioni, rimozione in seguito a impeachment o altra incapacità a esercitare i suoi poteri”.

Ci sono stati dei casi nel quali la vicepresidenza ha influito in modo rilevante sul corso degli eventi?

“Dick Cheney, vero artefice della politica estera ed energetica di George W. Bush da dietro le quinte, è stato l’unica eccezione rilevante alla marginalità istituzionale del vicepresidente. Ma, appunto, è stato l’eccezione che conferma la regola. Lo attesta il caso di Mike Pence che, malgrado le farneticazioni di Trump sul suo tradimento, il 6 gennaio 2021, nella veste di presidente del Senato, non aveva altro ruolo che quello notarile di sovrintendere al conteggio dei voti elettorali, senza alcun potere di influenzare la certificazione o meno della vittoria di Biden”.

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Chi sceglie i candidati alla vicepresidenza?

“I candidati alla vicepresidenza di prassi sono indicati in piena autonomia dall’assegnatario della nomination per la Casa Bianca e vengono ratificati dai delegati. L’aspirante alla presidenza sceglie generalmente una personalità in grado di integrare la sua capacità di attrarre elettori”.

Ci può fare qualche esempio

“Nel 2020 Joe Biden, un anziano uomo bianco, designò Kamala Harris, una donna afroamericana relativamente giovane. Allo stesso modo, nel 1960 John F. Kennedy, un progressista del Nord, volle al suo fianco Lyndon B. Johnson, un conservatore del Sud. Johnson aveva anche conteso a Kennedy la nomination democratica. Pertanto, l’accoppiata Kennedy-Johnson fu determinata pure da un altro criterio rilevante per l’investitura del vicepresidente: ricomporre le divisioni emerse all’interno del partito durante il processo di selezione del candidato alla Casa Bianca. Avvenne lo stesso nel 1980, quando Reagan indusse la convenzione repubblicana ad affiancargli George H.W. Bush, il suo principale sfidante nelle primarie”.

Per le elezioni del 2024 i giochi sembrano già fatti dopo il voto in appena due stati. Secondo lei può accadere ancora qualcosa che cambi questo scenario?

“Rispetto all’ultimo cinquantennio, è possibile che quest’anno cambi qualcosa, sebbene l’ipotesi per ora rasenti la fantapolitica. L’esclusione di Trump dalle primarie di alcuni Stati (al momento è successo solo nel Colorado e nel Maine per decisioni su cui deve ancora pronunciarsi la Corte Suprema federale) potrebbe impedirgli di avere in partenza la maggioranza dei delegati. Questa situazione innescherebbe una dialettica interna alla convenzione repubblicana, rimettendo in gioco la sua ultima sfidante rimasta, Nikki Haley, già largamente sconfitta in Iowa e New Hampshire ma non ancora ritiratasi forse nella speranza che si concretizzi proprio un tale sviluppo”.

E in campo democratico che cosa potrebbe succedere di analogo?

“Potrebbe succedere che Biden – pur vincendo le primarie democratiche – sia convinto a rinunciare alla ricandidatura a causa del suo bassissimo tasso di popolarità. Spetterebbe allora alla convenzione democratica scegliere il candidato, probabilmente tra la vicepresidente Harris e i molto più quotati governatori della California Gavin Newsom e del Michigan Gretchen Whitmer”.

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*****Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).

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Libri:

Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25 euro edizione cartacea, 6,99 euro edizione Kindle

Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35 euro edizione cartacea, 6,99 euro edizione Kindle.

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