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Elezioni americane 2024: l’esito finale si farà aspettare. Il 6 novembre non sapremo ancora chi prenderà il posto di Joe Biden

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Non facciamoci troppe illusioni sulla possibilità di conoscere il nome del prossimo o della prossima presidente degli Stati Uniti nella notte tra il 5 e il 6 novembre oppure, al più tardi, nella giornata successiva. I pessimisti sui tempi pensano soprattutto all’opera dilatoria della schiera di avvocati già assoldati da Donald Trump per contestare l’eventuale vittoria di Kamala Harris. Ma, al di là delle tattiche del tycoon, sono le procedure elettorali che di per se stesse inducono a ipotizzare ritardi nella diffusione del risultato finale della corsa per la Casa Bianca.

L’attesa del voto postale

I sondaggi prevedono un testa a testa, tra Harris e Trump nei sette swing States (Arizona, Carolina del Nord, Georgia, Michigan, Nevada, Pennsylvania e Wisconsin), gli Stati in bilico – quelli caratterizzati da un elettorato fluido e da repentini cambiamenti della maggioranza tra una consultazione e l’altra – che di fatto decideranno l’assegnazione della Casa Bianca.

La media calcolata venerdì scorso dall’autorevole sito www.270towin.com attribuiva a Trump un vantaggio dell’1,9% in Georgia, dell’1,8% in Arizona, dell’1,1% nella Carolina del Nord, dello 0,6% in Pennsylvania e dello 0,2% in Nevada, mentre vedeva Harris in testa per l’1,6% in Michigan e per lo 0,7% nel Wisconsin.
Tutte queste percentuali, di per sé molto basse, sono inferiori al margine di errore dei sondaggi medesimi. A causa del previsto divario minimo tra i candidati, è facilmente ipotizzabile che il conteggio dei voti espressi in presenza ai seggi non sarà di per se stesso dirimente e bisognerà aspettare lo spoglio dei voti inviati per posta perché questi ultimi potrebbero finire per fare la differenza.

La normativa sui tempi del voto postale

Qui iniziano i problemi. In cinque dei sette Stati incerti le schede mandate per corrispondenza, affinché siano considerate valide, devono pervenire agli uffici elettorali incaricati di contarle entro il giorno in cui si chiudono le urne per chi vota in presenza. Invece, il Michigan concede altri sei giorni per farle giungere a destinazione nel caso di quelle spedite dal personale militare o da civili temporaneamente all’estero, mentre il Nevada le accetta fino a tutto il quarto giorno successivo alla chiusura dei seggi, a prescindere da chi sia il mittente, a condizione che il timbro postale riporti al più tardi la data del 5 novembre.
Inoltre, cinque swing States accordano agli elettori alcuni giorni per rettificare eventuali problemi riguardanti la corrispondenza tra la firma apposta sul plico contenente la busta con la scheda elettorale anonima e quella depositata presso uffici elettorali delle contee di residenza al momento dell’iscrizione nelle liste dei votanti: una settimana in Arizona, sei giorni in Nevada, tre in Georgia e Michigan, un tempo a discrezione dei singoli uffici elettorali nella Carolina del Nord.

Il problema del riconteggio dei voti

Il divario contenuto tra i candidati potrà provocare ulteriori ritardi nella comunicazione dei risultati. La normativa dell’Arizona e della Pennsylvania stabilisce un riconteggio automatico delle schede se il margine tra i contendenti è inferiore o pari allo 0,5%. Lo stesso prevede il Michigan se i candidati sono separati da meno di 2.000 voti, ma chi è stato battuto può domandare una verifica a prescindere dalle dimensioni della sua sconfitta. La legislazione elettorale della Georgia e della Carolina del Nord non contempla automatismi, ma concede a richiesta un secondo conteggio se a separare i candidati sono meno di 10.000 voti o lo 0,5% delle schede valide. Il Wisconsin innalza la condizione per la verifica a un divario non superiore all’1%. Nel Nevada è ammesso un accertamento sui voti se è il candidato ad accollarsene l’onere finanziario. Per dare un’idea della possibile dilatazione dei tempi, il riconteggio manuale dei voti delle elezioni presidenziali del 2020, deciso dalla Georgia l’11 novembre perché Joe Biden aveva ricevuto il 49,47% e Donald Trump il 49,24%, fu completato il 19 del mese.

Le implicazioni dell’elezione indiretta

L’elezione del presidente degli Stati Uniti è indiretta. Il voto del 5 novembre formalmente serve soltanto ad assegnare i grandi elettori di ciascuno Stato nel collegio elettorale che sceglie il presidente.
I grandi elettori si presentano aggregati in liste bloccate e contrapposte. Ciascuna è collegata a uno dei diversi candidati alla Casa Bianca e contiene un numero di aspiranti grandi elettori pari a quelli in palio nello Stato in cui si vota.

Il collegamento consiste nell’impegno formale dei componenti della lista a votare per uno specifico candidato alla presidenza. Non a caso, i cittadini che si recano alle urne o votano per posta sulla scheda elettorale trovano indicati non più i diversi elenchi dei grandi elettori, come era avvenuto per gran parte dell’Ottocento, ma solo i nominativi dei candidati alla presidenza a cui ogni lista è collegata.
Pertanto, una volta che saranno attribuiti i grandi elettori con il voto del 5 novembre, dovrebbe essere chiaro chi diventerà presidente, senza bisogno di aspettare che il collegio elettorale lo nomini in maniera ufficiale.

I vincoli al voto dei grandi elettori

Questo automatismo, però, esiste solo sulla carta. I candidati alla carica di grande elettore sono designati dai partiti tra i loro notabili e funzionari per assicurarsene la fedeltà al momento nel voto.
Inoltre, la maggioranza degli Stati ha meccanismi che obbligano i rispettivi grandi elettori a votare per il candidato alla presidenza che si sono impegnati a sostenere agli occhi dei cittadini che sono andati alle urne o hanno spedito la scheda elettorale per posta. In alcuni casi, le norme vigenti impongono che il voto per il presidente sia espresso in maniera palese e comportano la destituzione e la relativa sostituzione per gli eventuali grandi elettori “infedeli” affinché non venga meno la responsabilità che si sono assunti con gli statunitensi. Di contro, tredici dei cinquanta Stati dell’Unione, tra cui la Georgia e la Pennsylvania, non prevedono nessuna misura di questo genere e, quindi, non dispongono di strumenti per costringere i propri grandi elettori a restare fedeli al loro candidato.

Quando i grandi elettori si dimostrano “infedeli”

Dalla prima elezione, quella che portò George Washington alla presidenza nel 1788, alla consultazione del 2020, i grandi elettori hanno espresso 23.507 voti. Appena 90 volte lo hanno attribuito a un candidato diverso da quello a cui erano vincolati e in nessun caso la loro “slealtà” ha influito sull’assegnazione della Casa Bianca.

Tuttavia, il fenomeno dell’“infedeltà” si è intensificato in anni recenti. In particolare, nel 2016 cinque grandi elettori democratici “tradirono” Hillary Clinton e indirizzarono il loro voto non sul suo rivale Trump, bensì su Bernie Sanders (il senatore progressista del Vermont, con posizioni di stampo socialdemocratico, sconfitto dalla moderata Clinton nelle primarie), Faith Spotted Eagle (un’attivista nativa americana schieratasi contro la costruzione dell’oleodotto Keystone XL che aveva invece ottenuto il via libera dal presidente Barack Obama malgrado il suo impatto devastante sull’ambiente) e per ben tre volte su Colin Powell (l’ex segretario di Stato afro-americano del repubblicano George W. Bush, che nel 2008 aveva appoggiato la candidatura di Obama).

Votò per Sanders anche uno dei grandi elettori del Colorado, ma la sua preferenza non fu conteggiata perché venne sostituito in base alle disposizioni dello Stato. L’“infedeltà” verso Clinton fu probabilmente la manifestazione della protesta di alcuni grandi elettori che avrebbero voluto un candidato democratico meno schierato con i poteri forti, più ambientalista ed espressione di una minoranza etno-razziale.
Nella stessa votazione del 2016 Trump fu “tradito” da due grandi elettori del Texas che si pronunciarono per l’ex deputato repubblicano iperliberista Ron Paul e per John Kasich, il governatore dell’Ohio e ultimo avversario del tycoon a ritirarsi dalle primarie repubblicane di quell’anno.

In questo caso, la “slealtà” nei confronti di Trump poteva venire interpretata come una forma di opposizione al protezionismo, su cui The Donald intendeva incentrare la politica commerciale di una sua eventuale amministrazione, in contrasto con l’orientamento tradizionalmente liberista del partito.

L’attesa che si pronunci il collegio elettorale

Non si può escludere che nuove forme di dissenso verso i candidati ufficiali dei due maggiori partiti emergano anche quest’anno. Per esempio, alcuni grandi elettori democratici potrebbero negare il voto a Harris per stigmatizzare un eccessivo allineamento dell’amministrazione Biden-Harris sulle posizioni del governo di Benjamin Netanyahu nella crisi in Medio Oriente e la sua incapacità nell’imporre a Israele un cessate il fuoco a Gaza.

Su questa linea, pur non essendo un grande elettore ma un semplice votante, Amer Ghalib, il sindaco democratico di Hamtramck (Michigan) di origini yemenite, ha dischiarato che voterà per Trump.
Del resto, nelle elezioni primarie, quando Biden era l’unico candidato in lizza per la nomination del partito, il 13% dei democratici del Michigan e il 19% di quelli del Minnesota scelsero di inviare alla convenzione nazionale delegati che non si erano impegnati a sostenerne la conferma per un secondo mandato per manifestare il proprio dissenso verso la politica del suo governo sulla Palestina.

In maniera analoga, qualche grande elettore repubblicano insoddisfatto potrebbe “tradire” Trump e votare per Nikki Haley, l’ex governatrice della Carolina del Sud che, sia pure per poco tempo, ha offerto l’unica valida alternativa a The Donald nel corso delle primarie repubblicane. Se, per ricorrere a un’espressione dell’ippica, Trump o Harris vincessero nel collegio elettorale “di corto muso”, il voltafaccia di un pugno di grandi elettori potrebbe rivelarsi determinante per modificare l’esito della corsa per la Casa Bianca e, pertanto, occorrerebbe attendere il voto effettivo del collegio elettorale, il 16 dicembre, per conoscere con sicurezza il nome del presidente.

La possibile contestazione del voto dei grandi elettori in seno al Congresso

Come se non bastasse, il voto dei grandi elettori non è definitivo. Deve essere certificato dai governatori dei rispettivi Stati e può essere contestato dal Congresso. È già avvenuto il 6 gennaio 2021. In tale occasione, sia pure senza riuscire nell’intento di impedire la proclamazione della vittoria di Biden, sei senatori e 121 deputati repubblicani sostennero una risoluzione per annullare il responso dei grandi elettori dell’Arizona, mentre sette senatori e 138 deputati dello stesso partito chiesero che non venisse certificato il voto dei grandi elettori della Pennsylvania.
Per intralciare il riproporsi di analoghi tentativi per rovesciare l’esito delle elezioni, nel 2022 il Congresso ha innalzato a 20 senatori e a 87 deputati, cioè al 20% dei membri del Senato e della Camera, la soglia minima per presentare mozioni allo scopo di impugnare il voto dei grandi elettori e di mettere in discussione la legittimità della loro designazione.
Prima, era sufficiente il concorso di un solo senatore e di un solo deputato. Il precedente del 2021 induce a temere che potrebbe essere necessario aspettare fino al 6 gennaio del prossimo anno per essere certi sul nome di chi siederà nello Studio Ovale.

L’ipotetico passaggio dell’elezione del presidente alla Camera dei Rappresentanti

C’è, infine, un ultimo scenario da prendere in considerazione. Per la defezione di alcuni grandi elettori e la dispersione dei loro voti su figure di protesta, né Harris né Trump potrebbero ottenere la maggioranza assoluta nel collegio elettorale.

In tal caso, la scelta del presidente passerebbe alla Camera dei Rappresentati, che si esprimerebbe dopo il conteggio dei voti dei grandi elettori il 6 gennaio 2025. In questa circostanza, la votazione non avverrebbe per testa ma per delegazione statale. In altre parole, ogni Stato disporrebbe di un unico voto e le preferenze dei singoli deputati verrebbero conteggiate soltanto per stabilire il voto collettivo di ciascuno degli Stati che rappresentano alla Camera.

Una tale eventualità si è presentata appena due volte nella storia degli Stati Uniti, nei lontanissimi 1801 e 1825. In quest’ultimo anno, servì una sola votazione per assegnare la Casa Bianca a John Quincy Adams, ma nel primo ci vollero ben trentacinque scrutini, che si svolsero tra l’11 e il 17 febbraio 1801, prima che Thomas Jefferson uscisse vincitore nella corsa per la presidenza. Per due secoli non si è fatto ricorso a questa procedura. Tuttavia, in una campagna elettorale che ha riservato sorprese a ripetizione (dal duplice attentato contro Trump al ritiro del candidato democratico che aveva vinto le primarie), dobbiamo essere preparati a ogni evenienza, anche la più inattesa.
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Autore: Stefano Luconi. Insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).
Libri
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25 euro edizione cartacea, 6,99 euro, edizione Kindle. Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle

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