Con il professor Stefano Luconi, docente di Storia ed istituzioni delle Americhe all’Università di Padova, discutiamo, per la serie di interviste di goWare sulle elezioni americane, di uno snodo fondamentale per il funzionamento della democrazia in America, l’elezione e le prerogative del Congresso che esercita il potere legislativo. Il 5 novembre gli americani, oltre ad eleggere il Presidente e il Vicepresidente, sceglieranno anche i loro rappresentanti al Congresso che è costituito da due rami, la Camera dei rappresentanti e il Senato.
Il Congresso è una istituzione decisiva per tenere ben oliato un concetto basilare della democrazia americana, quello di controllo e bilanciamento tra i differenti poteri dello Stato. Può succedere anche che il partito del presidente in carica non abbia la maggioranza al Congresso o in uno dei suoi rami, si venga cioè a verificare una situazione di “divided government” o “governo diviso”.
È una situazione che costringe il Presidente ad accordarsi con l’opposizione per portare avanti la propria agenda. L’attuale presidente Biden opera dall’inizio dello scorso anno in una condizione di governo diviso, come è successo anche al suo predecessore nella seconda metà del mandato. In questi giorni lo vediamo con la questione dei finanziamenti all’Ucraina che ha messo in stallo l’agenda di Biden. Il presidente probabilmente dovrà fare delle concessioni al Partito repubblicano per ottenere l’approvazione della Camera dei Rappresentanti dove i repubblicani hanno la maggioranza di soli sei voti dopo che il democratico Tom Suozzi ha vinto le elezioni suppletive di martedì scorso per sostituire il repubblicano George Santos. Al Senato i repubblicani hanno un seggio in più dei democratici, ma questi ultimi hanno di fatto la maggioranza perché i tre membri formalmente indipendenti si schierano con loro nelle votazioni.
Con il professor Luconi, autore con goWare di un libro-guida alle prossime elezioni presidenziali, vogliamo fare un discorso più istituzionale che politico per capire quali prerogative la struttura costituzionale degli Stati Uniti assegna al Congresso.
Professoree, per chi si voterà esattamente il 5 novembre?
Le elezioni del prossimo 5 novembre riguarderanno non solo la presidenza ma anche il Congresso, l’organo legislativo federale articolato in due rami: il Senato e la Camera dei rappresentanti. I senatori sono 100, due per ciascuno dei 50 Stati a prescindere dall’entità degli abitanti e dall’estensione territoriale; i rappresentanti 435, ripartiti tra gli Stati in proporzione al numero dei residenti (compresi gli immigrati che non hanno la cittadinanza americana).
Ci vuole fare degli esempi di questa distribuzione?
Lo Stato a cui spetta il maggior numero di seggi alla Camera è oggi la California con 52. Di contro, Alaska, Delaware, Dakota del Nord e del Sud, Vermont e Wyoming ne hanno appena uno. I seggi sono redistribuiti ogni dieci anni in base ai dati del censimento della popolazione. La California, per esempio, prima del censimento del 2020 aveva 53 seggi. I territori degli Stati Uniti (Guam, Portorico, Samoa americane, Marianne settentrionali e Isole Vergini) e il distretto di Columbia (l’area metropolitana di Washington) non hanno né senatori né rappresentanti. Ciascuno, però, elegge alla Camera un proprio delegato che può intervenire nei dibattiti ma non ha diritto di voto.
L’elezione del Senato è diretta?
Sì. Fino al 1913, però, l’elezione del Senato era indiretta, cioè i due membri di ogni Stato erano nominati dalle rispettive assemblee legislative anziché attraverso il voto popolare, come invece avviene da allora.
In che modo i partiti scelgono i candidati?
I partiti designano i candidati attraverso le primarie. Ciascuno Stato le tiene in genere lo stesso giorno di quelle per la selezione dei delegati alle convenzioni nazionali che assegnano la nomination per la Casa Bianca.
Come sono organizzati i collegi elettorali?
I senatori sono eletti in un collegio unico statale. Invece, per la scelta dei rappresentanti, ogni Stato è diviso in tante circoscrizioni quanti sono i seggi di cui dispone alla Camera.
Ho letto che in alcuni stati si sta verificando un fenomeno detto gerrymandering. Che cosa è?
Quando il numero dei seggi di uno Stato varia, le circoscrizioni devono essere ridefinite. A occuparsene non è il Congresso, ma sono le assemblee legislative degli Stati (tutte bicamerali salvo quella del Nebraska). Se un partito ne controlla entrambi i rami, in genere approfitta dell’opportunità di ridisegnare l’assetto dei distretti per trarre il massimo vantaggio elettorale dalla nuova distribuzione dei votanti potenziali. Questa pratica è chiamata “gerrymandering”.
Ci può fare qualche esempio?
Per esempio, nel 2021, dopo che i rappresentanti della Carolina del Nord erano aumentati di un’unità, i repubblicani, che avevano 8 dei 13 seggi nella legislatura in corso del Congresso, smembrarono due circoscrizioni con una solida maggioranza di elettori democratici, così da diluirne il voto ed assicurarsi un vantaggio significativo in 10 dei 14 nuovi distretti nelle elezioni del 2022. Esiste anche un “gerrymandering” per motivi razziali: nel 2021, per favorire i candidati bianchi, l’assemblea legislativa dell’Alabama concentrò gli elettori afroamericani in una sola delle sette circoscrizioni dello Stato, in maniera da ridurre considerevolmente le probabilità che i pochi votanti neri delle altre sei potessero inviare alla Camera un membro della loro comunità.
Il sistema elettorale è maggioritario?
Sì. In 47 Stati è sufficiente la maggioranza semplice dei voti per ottenere il seggio. La maggioranza assoluta è, invece, necessaria in Georgia e in Mississippi. Se nessun candidato la riceve, viene indetto un ballottaggio tra i due più votati. La Louisiana è un caso a sé. Se un candidato consegue la maggioranza dei voti validi espressi nelle primarie (che si svolgono in novembre quando gli altri Stati tengono le elezioni), conquista già allora il seggio. Se questa situazione non si verifica, si torna alle urne in dicembre per scegliere tra i due aspiranti che hanno ricevuto il maggior numero di preferenze a prescindere dal partito nelle cui primarie avevano corso. Può, dunque, capitare che ad affrontarsi nel ballottaggio siano due candidati dello stesso partito. Per esempio, nel 1996, furono due democratici a contendersi il seggio nel 7° distretto della Camera.
Che durata ha il mandato dei legislatori che siedono cl Congresso?
Il mandato dei rappresentanti dura due anni, quello dei senatori sei. A novembre saranno in palio tutti i 435 seggi della Camera, ma appena 33 di quelli del Senato.
Perché esiste questa sfasatura?
La conclusione dell’incarico dei membri del Senato è stata sfasata al momento dell’insediamento del primo Congresso nel lontano 1789 in modo tale che ogni due anni giunga a scadenza il mandato di solo un terzo dei senatori. Tale meccanismo è stato ideato per evitare cambiamenti politici radicali quali si potrebbero verificare se ogni sei anni a rinnovarsi fosse l’intero Senato.
Passiamo al discorso sulle prerogative del Congresso. Si ha l’impressione che al Congresso sia affidato un ruolo centrale nel mantenere in equilibrio i poteri una repubblica presidenziale
In effetti è così. Siamo soliti pensare al presidente degli Stati Uniti come alla persona più potente del mondo o, negli ultimi anni, alla seconda più potente dopo il segretario generale del partito comunista cinese. In realtà, non è così. L’architettura costituzionale americana assegna al Congresso prerogative tali da vincolare e limitare l’operato dell’inquilino della Casa Bianca. Lo abbiamo visto la settimana scorsa, quando la maggioranza repubblicana della Camera ha impedito a Biden, almeno per il momento, di stanziare $60 miliardi per l’Ucraina.
In che modo si esercita la prerogativa del Congresso dei confronti della Presidenza?
In particolare, non esiste un’iniziativa legislativa presidenziale. Pertanto, la Casa Bianca deve fare affidamento su uno o più membri del Congresso per presentare i disegni di legge che servono ad attuare il suo programma, oltre ad aggregare una maggioranza per approvarli.
Esistono delle deroghe a questo principio?
Il presidente può emettere decreti – strumenti a cui Obama, Trump e Biden hanno fatto crescente ricorso per aggirare l’ostruzionismo di Camera e Senato in un’epoca di forte polarizzazione partitica – ma ha diritto ad avvalersene solo per iniziative di portata limitata nel tempo e con un comprovato carattere di urgenza.
Ha anche il potere di porre un veto sulle leggi varate dal Congresso, vero?
Sì. Però, Camera e Senato possono scavalcarlo, approvando nuovamente il provvedimento con una maggioranza qualificata di due terzi dei voti. Inoltre, le misure di natura fiscale devono partire dalla Camera.
Esiste una sorta di divisione delle prerogative tra i due rami del Congresso?
Sì, al Senato spetta la conferma delle nomine effettuate dal presidente, comprese quelle dei titolari dei dicasteri e dei giudici federali (inclusi quelli della Corte Suprema), nonché la ratifica dei trattati internazionali. Gli accordi commerciali con Paesi stranieri sono soggetti pure all’avallo della Camera, senza il quale non diventano operativi. L’emanazione di un’eventuale dichiarazione di guerra è di esclusiva competenza del Congresso, sebbene il presidente possa sollecitarla e sia il comandante in capo delle forze armate. Infine, è la Camera a dare avvio a un’ipotetica messa in stato di accusa del presidente ed è il Senato a processarlo e, in ultima istanza, ad assolverlo o a condannarlo rimuovendolo dalla carica.
Difficile lavorare per un Presidente che si trova una maggioranza diversa dalla sua al Congresso, vero?
La situazione ideale per un presidente è quella dello “unified government” (governo unitario), in cui il suo partito detiene la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Tale condizione, però, ricorre sempre meno perché gli elettori esprimono spesso un voto disgiunto, cioè nella stessa tornata votano candidati di partiti differenti per le diverse cariche in palio. Infatti, nei 72 anni trascorsi dalle elezioni presidenziali del 1952, solo 26 hanno visto uno “unified government” e oggi Biden si trova a confrontarsi con una Camera controllata dai repubblicani.
Ci sono stati dei casi di scontro aperto tra i due poteri a causa del “divided government”
In passato sì. Il “divided government” ha portato a scontri aperti tra il potere esecutivo e quello legislativo, vanificando le iniziative del presidente. Per esempio, la maggioranza repubblicana del Senato nel 1999 bocciò il trattato per la messa al bando totale dei test nucleari che Clinton aveva sottoscritto tre anni prima e nel 2016 non volle neppure avviare la procedura per la ratifica della nomina di Merrick Garland a giudice della Corte Suprema da parte di Obama.
C’è anche il caso clamoroso di Wilson ne primo dopoguerra, vero?
Sì, il caso più celebre resta, comunque, la mancata approvazione del trattato di Versailles da parte del Senato nel 1919, con la conseguente autoesclusione degli Stati Uniti dalla Società delle Nazioni, che era stata ideata dal presidente Woodrow Wilson. Tuttavia, i conflitti tra presidenza e Congresso non sono riconducibili solo al “divided government”.
Che cosa può esserci?
Per esempio, l’opposizione della Camera, dove il partito repubblicano conservò la maggioranza fino al 3 gennaio 2019, allo stanziamento di $5,7 miliardi richiesto da Trump per la costruzione del cosiddetto “muro” al confine con il Messico provocò una durissima contrapposizione tra legislativo ed esecutivo, causando una lunga impasse sul varo della legge finanziaria e il più esteso “shutdown” (la sospensione per mancanza di fondi delle attività non indispensabili dell’amministrazione federale) nella storia degli Stati Uniti dal 22 dicembre 2018 al 25 gennaio 2019.
Grazie professor Luconi. La prossima settimana pubblicheremo l’ultima intervista sul periodo di transizione dopo le elezioni del 5 novembre, la ratifica del voto e l’insediamento del nuovo presidente. Questa serie di interviste saranno raccolte in un volumetto da scaricare gratuitamente alla vigilia delle elezioni presidenziali del 5 novembre.