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Elezioni a Roma: non è la Raggi la soluzione al disastro

Imagoeconomica

Roma è il concentrato di tutti i problemi che affliggono l’intero paese. Tasse alte, inefficienza dell’amministrazione, trasporti inadeguati, illegalità diffusa, in genere un ambiente che offre scarsi incentivi alle attività produttive ed una qualità della vita scadente per i cittadini. Ma per risalire la china la risposta giusta non sta nell’affidarsi ai 5 stelle che hanno candidato una giovane donna di gradevole aspetto ma palesemente impreparata ad affrontare un compito così impegnativo e soprattutto ingabbiata nelle poche e confuse idee della Casaleggio ed associati e degli altri notabili del partito che si sono costituiti in “comitato di supporto”.

Certo i partiti politici che hanno governato Roma negli ultimi due decenni non hanno ben meritato. Anche i Rutelli o i Veltroni, che pure possono vantare qualche importante successo, sono rimasti impigliati nella rete delle connivenze della politica locale, non hanno sfidato i gruppi affaristici che premono sul Campidoglio, non hanno avviato una strategia di efficientamento della macchina burocratica, non hanno impostato un progetto a medio termine per fare di Roma una vera “caput mundi”. Poi la Giunta di destra di Alemanno ha dato il colpo di grazia all’amministrazione capitolina. I vecchi mazzieri fascisti hanno dato l’assalto agli uffici ed ai posti nelle società municipalizzate. Il debito è esploso. Le tasse sono aumentate. Le condizioni delle strade sono peggiorate al punto che ora è difficile perfino camminare a piedi su marciapiedi pericolosamente sconnessi.

Poi è arrivato il marziano Marino che ha messo la pietra tombale su qualsiasi speranza. E queste colpe storiche dei vecchi partiti, sono oggettivamente benzina per la marcia dei 5 Stelle. Ma il vero punto di forza della Raggi sta solo nelle pecche delle passate amministrazioni. Ed infatti la candidata grillina nei dibattiti in tv è efficace solo quando si presenta come il nuovo che spazza via le vecchie classi dirigenti. Per il resto buio assoluto. La verità è che anche nei partiti tradizionali è cambiato molto. La destra si è divisa tra la Meloni che torna a basarsi sul tradizionale giacimento fascista di Roma, ed un moderato come Marchini che però è rimasto in bilico tra il nuovo e la vecchia nomenclatura di Forza Italia.

A sinistra c’è Fassina che gioca la sua carta di sopravvivenza su scala nazionale, quindi per Roma non nutre alcun reale interesse. Il PD da canto suo ha fatto una rivoluzione ed ha completamente rinnovato il suo gruppo dirigente e con Giachetti cerca di accreditare una immagine di completo cambiamento sia nella gestione corrente che nella strategia. Ma quello che colpisce negativamente a Roma, così come nelle altre grandi città dove si va al voto, è la scarsa chiarezza un po’ in tutti i programmi su due punti qualificanti: la riforma dell’apparato burocratico comunale, e la gestione delle società partecipate. Negli anni passati in entrambi i settori c’è stato l’assalto delle clientele e soprattutto si sono accumulati privilegi per i dipendenti tanto più elevati quanto minore era l’efficienza del servizio reso alla collettività.

Sergio Rizzo, sul Corriere della Sera, sottolinea che nei programmi dei vari partiti nessuno ha avuto il coraggio di proporre una drastica riduzione del numero delle società partecipate e nemmeno, se non in forma generica, la necessità di un loro risanamento economico. Vero, ma l’analisi di Rizzo si ferma a questa constatazione senza approfondire il fenomeno sotto l’aspetto storico e politico. La moltiplicazione delle società partecipate dagli enti locali è il frutto avvelenato di un malinteso decentramento amministrativo (ed infatti è stato sempre difeso dalla Lega sia di Bossi che ora di Salvini). Il risultato è che intorno ai poteri locali ed alle loro finanze si sono coagulati potenti interessi economici e politici.

Gli stessi partiti, quelli che ancora esistono, appaiono oggi più come aggregazioni di potenti Ras locali semi-autonomi, che come organismi coerenti tenuti insieme da una visione comune e da una gerarchia dotata di effettivi poteri di indirizzo e controllo. In questo quadro istituzionale non ci si può meravigliare se la politica locale non trova la convenienza a smantellare il proprio apparato di potere. Ora però il cambiamento è avviato. Varie leggi, tra cui quella promossa dalla ministra Madia, costringeranno le amministrazioni locali sempre più a corto di risorse finanziarie, a dismettere o chiudere molte aziende municipali, a promuovere fusioni o a far entrare i privati nella gestione.

Il processo sarà complesso ma senza la spinta del potere centrale ed il riordino delle autonomie previsto dalla riforma costituzionale, non si metterà in moto spontaneamente. Ragione di più per mandare al Campidoglio chi ha esperienza amministrativa e capacità politiche, per gestire al meglio una fase di drastica riduzione del così detto socialismo municipale che non solo brucia denaro, ma spesso offre servizi del tutto inadeguati ai cittadini. La Raggi, fedele alla ideologia dei 5 Stelle della “decrescita felice”, vuole far perdere a Roma l’opportunità delle Olimpiadi che invece, se gestita con accortezza, può rappresentare una vera occasione di rinascita della città come avvenuto, ad esempio, a Torino.

Insomma tra la sterile protesta dei 5 Stelle, il rigurgito fascista della Meloni, il velleitarismo di sinistra di Fassina, la scelta per gli elettori romani si restringe alle candidature più moderate e di buon senso. Mai come in questo momento occorrerà votare con la testa e non con la pancia, tenendo prendente anche la necessità di non interrompere a livello nazionale l’avvio delle riforme e quel poco di ripresa dell’economia che comincia ad essere ben visibile.

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