Lo scenario economico del 2025 si presenta, a chi lo osserva con il senno degli ultimi mesi, come una fotocopia del 2024, il cui finale contiene i semi del principio dell’anno che verrà e, come una melagrana, si schiude a far vedere la messe futura.
Almeno per il primo trimestre, infatti, è difficile sbagliare pronostico nell’indicare l’economia USA come spumeggiante e quella europea senza gas, per non dire alla canna…. Tuttavia, qualche differenza e di portata significativa potrebbe emergere, come conseguenza delle decisioni della nuova amministrazione Trump sia in politica tariffaria sia in politica estera, mentre appare difficile che l’Europa assuma qualche iniziativa di rilievo prima del secondo semestre. Ma andiamo con ordine, partendo dai dati certi e dalle dinamiche probabili.
Il primo dato è che la dinamica dell’economia a stelle e strisce si è fatta ancora più effervescente: il PMI composito output è ai massimi da 33 mesi, gli occupati si sono scrollati uragani e scioperi e sono tornati a salire e idem i salari reali, traducendosi in più alte vendite al dettaglio, con gli acquisti nel giorno del Ringraziamento, che inaugura le spese natalizie, in aumento spettacolare. Il motore formato da consumi e monte salari reale continua a girare a pieno regime e l’ultima previsione per il PIL nel quarto trimestre è del 3,1%, dopo il 3,0% del secondo e il 2,8% del terzo. Non c’è segno di surriscaldamento: anche se l’inflazione ha smesso, per ora, di scendere (vedere oltre), nel mese corrente le aspettative inflazionistiche degli imprenditori sono scese al 2%, ossia al minimo dal dicembre 2020, e la componente prezzi del PMI è ben sotto la media di lungo periodo pre-pandemia. In un’economia surriscaldata, invece, gli imprenditori tenderebbero a rialzare i listini per razionare la domanda.
Il secondo dato è pure una conferma, seppure poco piacevole: l’Eurozona ha continuato a contrarsi a dicembre, sebbene in misura meno marcata che in novembre. La zavorra del manifatturiero tira a fondo l’insieme, nonostante i servizi siano tornati sopra la linea di galleggiamento. Il mercato del lavoro ha iniziato a risentirne, con le imprese che riducono gli addetti al ritmo più alto da quattro anni, e con la disoccupazione giovanile, canarino nella miniera, che continua a lievitare, anticipando quella totale (l’Italia sarebbe una lodevole eccezione, se non fosse per la fuga dei giovani che rarefà l’offerta). Un pessimo segnale per la fiducia e la spesa dei consumatori, dai quali ci si attendeva il supporto salvifico.
Così la forbice tra chi sale (gli USA) e chi scende (l’area euro) si è ulteriormente ampliata, con evidenti conseguenze su altre variabili, come il tasso di cambio, i tassi di interesse e le Borse, conseguenze che saranno esaminate più avanti.
Il punto nodale è che negli Stati Uniti sta per insediarsi una nuova amministrazione, mentre in Europa la Francia cerca una difficilissima convivenza tra Presidenza e Parlamento e la Germania va alle elezioni il 23 febbraio e difficilmente avrà un governo prima di giugno, considerate le lunghe trattative che precedono la formazione di esecutivi di coalizione.
Non è detto che avere un governo sia un bene, se questo prendesse misure controproducenti, e nelle promesse elettorali di Mr Trump ce ne sono a bizzeffe (dai folli aumenti delle tariffe doganali all’inumana cacciata dei lavoratori immigrati). Anche in economia vale il motto primum non nocere che ispira i medici. Il rischio Trump esiste, ma l’antidoto è nella capacità di Trump stesso di fare piroette e giostrarsi tra una minaccia di alzare i dazi, nello stile del borbonico generale Francesco Landi (facite a faccia feroce!), e l’introduzione di alcune tariffe che non facciano ripartire l’inflazione.
Invece, Dio solo sa di quanto ci sia bisogno nel Vecchio Continente di decisioni comuni di politica economica per risollevare le sorti del languente settore automobilistico. Ma non arriveranno presto, in assenza di un importante decisore come quello tedesco. Mentre cadrebbe come manna dal cielo la pace sui due fronti ucraino e medio-orientale, che abbasserebbe il costo dell’energia e riaprirebbe pienamente le rotte navali, con riduzione dei costi per le imprese e i consumatori europei.
Smettendo l’abito dell’occidentale, egocentrato su Europa e USA, bisogna subito constatare che il resto del mondo, che ha un peso economico e politico ormai molto alto, continua a crescere, con epicentro CINDIA: Cina e India, infatti, insieme pesano sul PIL mondiale quanto USA+Euroarea (26,6% contro 26,9%) ma crescono molto di più. Il risultato del combinato disposto peso+velocità di crescita è che nel 2025 l’aumento del PIL di CINDIA sarà 3,5 volte quello di USA+Eur e contribuirà per il 50% alla crescita mondiale.
Per l’Italia l’anno venturo rappresenta un test molto rilevante. Infatti, l’economia risentirà appieno, soprattutto nella seconda parte del 2025, del ritiro degli investimenti residenziali, dopo la fine dei superbonus; che sarà solo in parte compensato dalla messa a terra del PNRR e del FNC (Fondo Nazionale Complementare); la somma algebrica è probabile che faccia mancare almeno un punto e mezzo al PIL, distribuito nel 2025-2026. A questo va aggiunta la difficoltà del manifatturiero, legata all’automotive ma anche al venir meno degli effetti moltiplicativi e accelerativi del superbonus e alle difficoltà del tessile-abbigliamento per il voltafaccia della Cina al lusso importato, il livellamento su più alti livelli delle spese turistiche internazionali (il Giubileo potrebbe aiutare, ma i pellegrini non hanno molto da spendere, anche se torneranno a casa arricchiti nello spirito) e la restrizione della politica di bilancio (pari a 0,6 punti percentuali di PIL). Gli unici lumicini sono un po’ di potere d’acquisto aggiuntivo delle famiglie, grazie a retribuzioni che aumentano più dell’inflazione e la riduzione dei tassi di interesse, che stimola gli acquisti di beni a debito (consumi durevoli e investimenti), oltre all’accumulo delle scorte. Le previsioni di OCSE (+1,1%) e FMI (+0,8%) saranno riviste molto probabilmente riviste all’ingiù. E l’Italia rischia di mettere in fila un triennio di crescita da prefisso telefonico, come ai vecchi brutti tempi. Non proprio una performance da incorniciare per chi ha preso il testimone dal Governo Draghi.
L’inflazione (moderata) sarà ancora con noi
Gli ultimi metri di una scalata sono i più duri, sia perché il corpo è stanco sia perché pendenza, difficoltà e insidie aumentano. Lo stesso si sta osservando per la dinamica dei prezzi al consumo negli Stati Uniti e nell’Eurozona.
Un po’ si deve all’eco dei rialzi passati, che rimbalza tra salari e margini delle imprese, un po’ perché in questi quattro anni il mondo è cambiato (meno globalizzazione=meno efficienza), ma soprattutto perché c’è stato un chiaro spostamento dell’ago della bilancia contrattuale verso i lavoratori, che si sono rarefatti rispetto ai posti di lavoro, anche per la glaciazione demografica. Le cui conseguenze si manifesteranno con moto accelerato. Per esempio, senza immigrazione in Italia mancheranno qualche centinaio di migliaia di lavoratori a riempire i posti che sarebbero creati dal pur non esaltante progresso del PIL da qui al 2029.
La rarefazione dei lavoratori porta a una maggiore dinamica dei salari, che tende a tradursi in maggiori prezzi, o in maggiore produttività se le imprese introducono innovazioni che innalzano il valore aggiunto o che modificano i processi produttivi.
La stasi registrata nell’abbassamento della inflazione core (tolti energetici e alimentari) testimonia della fatica degli ultimi metri. Tuttavia, quei metri saranno percorsi. In Europa più facilmente a causa della crisi che comprime i margini e scoraggia dal chiedere e concedere aumenti salariali. In USA perché le imprese sono ormai nell’ottica che l’inflazione sia tornata nell’alveo del 2% e si adegueranno sia come venditrici sia come compratrici (anche di lavoro); peraltro, al di là dell’Atlantico la forte crescita aiuta a ottenere maggiori guadagni di produttività, che attenua la lievitazione dei costi. In più, il quadro più veritiero dell’inflazione, quello fornito dall’indice dei prezzi dei consumi personali (misura usata dalla FED), è assai vicino al 2%, mentre quello dei semplici prezzi al consumo è di mezzo punto più alto.
Che dire di un’altra componente di costo e quindi di formazione dei prezzi qual è la quotazione delle materie prime? Gli sparuti segnali di miglioramento delle condizioni nel manifatturiero, specie nel gigante cinese, aumenteranno la domanda e quindi i prezzi, ma lentamente perché siamo lontani dal poter parlare di vera ripresa industriale globale. Piuttosto, se scoppiassero le paci, i prezzi dell’energia calerebbero.
Tassi giù con giudizio, Borse e cambi
Chi voglia argomentare che i tassi in America dovrebbero scendere ancora, avrebbe qualche buon argomento. E chi voglia argomentare che i tassi in America non dovrebbero scendere ancora, dovrebbero stare fermi, e anche, magari – absit iniuria verbis – risalire, avrebbe anch’egli qualche buon argomento…
Soppesiamo gli argomenti: i tassi dovrebbero scendere perché la politica monetaria è ancora restrittiva (anche Powell lo riconosce, pur se – vedi sotto – le ‘condizioni monetarie’ non sono restrittive). Anche dopo il calo di dicembre del tasso Fed, il Prime rate è al 7,50%. L’economia è stimata crescere al 2,8% nell’anno che si sta per chiudere, ma è vista rallentare l’anno prossimo e quello dopo, secondo le stime dell’Ocse e dell’FMI. La politica monetaria deve giocare d’anticipo, visto che il rallentamento potrebbe essere ancora più forte, date le incognite che gravano in questo basso mondo.
Ma, dicono coloro che non vogliono tassi più bassi, l’economia cresce, più o meno sul tasso potenziale, malgrado i tassi sui Federal Funds siano al 4% e passa. Non ha bisogno di stimoli monetari. E poi, dobbiamo essere vigilanti, confermare la fiducia dei risparmiatori: una fiducia di cui abbiamo bisogno, dato che l’immane deficit pubblico e i titoli in scadenza per l’altrettanto immane debito pubblico devono essere finanziati e rifinanziati da detti risparmiatori, interni ed esteri. Abbassare i tassi manderebbe il segnale sbagliato. Per non parlare dell’inflazione, che non è ancora al 2% cui la Fed mira: ulteriori ribassi saranno difficili, dato che il costo del lavoro è andato aumentando, e nel mercato del lavoro il potere negoziale sta passando dalla parte dei lavoratori. Inoltre, l’inflazione potrebbe essere rinfocolata dai dazi trumpiani.
Chi ha ragione? La prima cosa che bisogna dire è che il costo del danaro è deciso da un condominio: la Fed e i mercati. La Banca centrale ha un pieno controllo sui tassi brevi. Al di là di una certa scadenza, i mercati decidono (in circostanze eccezionali, come nel caso della crisi da Covid, la Banca centrale può abbassare anche i tassi lunghi, con la famosa ‘espansione quantitativa’, cioè comprando a man bassa titoli pubblici e privati, ma si tratta di circostanze, appunto, eccezionali). Allora, cosa è successo nel condominio?
Il grafico mostra che, da settembre a oggi, la Fed ha abbassato il tasso-guida di circa un punto percentuale. E i ‘tassi-guidati’? Non si sono fatti guidare: invece di scendere, sono saliti – i T-Bond a 10 anni hanno visto il rendimento aumentare di tre quarti di punto, e anche il tasso-principe dei mutui immobiliari, quello a 30 anni, è salito di una quindicina di punti-base. Il che vuol dire che quanti si angosciano cercando di capire le prossime mosse della Fed farebbero bene a ricordare che la Banca centrale americana, come del resto anche le altre Banche centrali, non controlla tutta la tastiera delle condizioni monetarie. Le sue decisioni sono, appunto, solo parte di un concetto più ampio di ‘condizioni monetarie’, nelle quali compaiono, oltre ai tassi, molte altre variabili. Di indici che esprimono le condizioni monetarie ve ne sono più d’uno: quello esibito nel grafico conta una quarantina di variabili; oltre ai tassi ci sono parecchi più o meno esoterici spread fra questo e quello…, indici di leverage, indicatori di liquidità, e, naturalmente, il cambio del dollaro (un dollaro forte equivale a restrizione monetaria).
Il “Financial Conditions Index” della Federal Reserve Bank of Chicago mostra che le condizioni monetarie si sono andate facendo più permissive nel corso dell’anno, e in questo è in linea con la variabile tradizionale della permissività (il tasso sui Federal Funds). In questo, allora. sembra essere d’accordo con quanti dicono che non c’è bisogno di ulteriori ribassi. Ma, come dice la Fed a ogni volger di comunicato, le prossime mosse dipendono dai dati.
Le Banche centrali hanno spesso un dilemma: da una parte, vorrebbero dare una guidance, cioè dare ai mercati un’indicazione di quello che faranno, così da ancorare le decisioni di famiglie e imprese a un quadro di ragionevoli certezze. Ma, dall’altra parte, sono costrette a ricordare che le loro decisioni dipenderanno dai dati, da come evolvono le grandezze economiche. È facile capire che guidance e data–dependency sono in una certa misura antitetiche, così che il banchiere centrale si deve barcamenare in quel suo difficile mestiere (un mestiere che è molto più difficile di quanto Trump creda – vedi le battute del Presidente-eletto che irride a Powell & Co. che tutto quel che fanno è riunirsi una volta al mese…).
Ma torniamo agli andamenti recenti dei tassi. Prima della riunione di mercoledì 18 dicembre della Fed, l’attesa era (quasi) unanime per un taglio di un quarto di punto. Sul prosieguo i pareri si dividevano: c’era chi pensava che nel corso del 2025 la Fed avrebbe fatto altri quattro simili tagli, c’era chi pensava (ed erano la maggioranza) che la Fed avrebbe preso tempo, e c’era chi pensava addirittura a qualche rialzo. Il risultato è andato con la maggioranza dei previsori: la Fed ha tagliato, ma ha avvisato che nel tempo a venire sarebbe stata più prudente. Apriti cielo! La Borsa è crollata, i beni rifugio, come oro e Bitcoin sono scesi di parecchio. Una reazione scomposta, insomma, che la dice lunga sulla fragilità del boom borsistico e ‘criptologico’ di questi ultimi tempi. La Fed si attende ancora due tagli nel 2025 (invece di quattro): ma è bastata una folata di ragionevole prudenza per angosciare gli operatori.
Come si vede dal grafico, il rendimento del T-Bond è schizzato in alto, e il dollaro si è fortemente rafforzato, solo perché la Fed non ha promesso di abbassare i tassi ogni trimestre. Si è ampliato il differenziale dei tassi con quelli europei: la Bce, a differenza della Fed, continuerà ad allentare la morsa monetaria, dato che l’economia dell’Eurozona ha bisogno del conforto di tassi più bassi, specie con una politica di bilancio orientata alla restrizione.
A proposito dell’Eurozona e della politica di bilancio, l’anno entrante sarà l’anno della verità: le regole in tema di finanza pubblica si scontreranno con le immense necessità di spendere – per la difesa, per le infrastrutture, per transizioni assortite. Al centro, naturalmente, c’è la Germania, e abbiamo avuto un assaggio di questo ‘scontro’ con la caduta del Governo Scholz, dovuta, appunto, all’intransigenza del ministro delle Finanze su deficit e debiti. Sarà affascinante vedere, dopo le elezioni di febbraio, quale coalizione emergerà, e che cosa succederà al famoso Schuld=debito=colpa.
Nel frattempo, la Bce è pregata di continuare a tagliare i tassi. In tempi di tassi calanti, l’Italia si avvantaggia, e gli spread sono ancora scesi, sia rispetto alla Germania che rispetto alla Spagna e alla Francia (in quest’ultimo caso, non è solo merito nostro…).
Il dollaro, si è detto, si è rafforzato: si è ampliato il differenziale dei tassi, sia nominali che reali (vedi grafico). Ma questa forza sarà presto messa alla prova. Trump dice di non voler più sussidiare altri Paesi che guadagnano soldi esportando verso il ricco mercato americano: quindi vuole ridurre il deficit corrente con l’estero (che ha appena segnato un nuovo record nel terzo trimestre 2024). Ma anche Trump non può volere la botte piena e la moglie ubriaca: un dollaro forte incoraggia le importazioni, scoraggia le esportazioni e attutisce l’effetto dei dazi che Trump vorrebbe introdurre (recentemente Trump ha minacciato dazi punitivi per i Paesi che vogliano usare altre monete per commerciare fra loro, evitando di passare per il “mighty US dollar”, come lo chiama).
Quindi, il dollaro è in zona rischio. Così come sono precari i livelli della Borsa e del Bitcoin. Le «Lancette» hanno sempre raccomandato, per il lungo periodo, l’investimento in azioni: in ciò ricordando le auree battute di Warren Buffett – “La Borsa è un meccanismo per trasferire soldi dagli impazienti ai pazienti” – e di Paul Samuelson – “Investire dovrebbe essere come guardare la vernice che si asciuga o l’erba che cresce – se volete l’eccitazione, prendete 800 dollari e andate a Las Vegas”. Ma oggi non consiglieremmo, a un cassettista in erba, di riempire il portafoglio di azioni. Wait and see…