Gli indicatori avanzati continuano, per fortuna, ad avanzare. Sia gli indici di fiducia dei consumatori che quelli delle imprese lasciano presagire una continuazione senza inciampi della ripresa, e, forse per la prima volta, i rischi sono verso l’alto e non verso il basso.
I consumi, appena diminuite le restrizioni e aumentate le vaccinazioni, potranno schizzare in avanti. Sempre che non arrivi qualche bastone fra le ruote.
Il bastone di turno si trova nelle chip, onnipresenti ormai in beni di consumo e di investimento. Nel bestiario delle recessioni ci sono quelle da debolezza di domanda e quelle da vincoli all’offerta. La possibile recessione da chip ne aggiunge una nuova: vincoli all’offerta a causa di troppa domanda.
Il virus ha fatto esplodere la domanda di chip per connessioni remote, e, a causa della mancanza di capacità produttiva e della lentezza inevitabile nel metter su nuove ‘fab’, le chip scarseggiano. Le case automobilistiche (le macchine moderne sono ormai ‘computer su ruote’) hanno dovuto in qualche caso rallentare la produzione per mancanza di chip. Incrociamo le dita.
Sulle due rive dell’Atlantico i nuovi contagi sono in netta ritirata. Ma il caso terribile dell’India ci ricorda un’amara verità: non saremo al sicuro da una recrudescenza del SARS-CoV-19 fino a quando non sarà debellato ovunque. Mandare i vaccini ai Paesi che ne hanno più bisogno non è carità, ma intelligente egoismo. L’iniziativa del Presidente Biden di togliere la protezione brevettuale ai vaccini è nobile ma discutibile.
Il fatto che gli indici coincidenti e quelli anticipatori diano buone notizie sulla congiuntura è positivo. Anche perché la coralità nelle buone attese fa sì che il quantum di ripresa sarà più della somma delle parti (e questa è la principale ragione che spinge a ritenere che i rischi siano verso l’alto).
Ma – c’è un ‘ma’ – gli strascichi della crisi sono e saranno pesanti. Se, prima del virus, una delle fattezze più preoccupanti dell’economia mondiale era l’aumento delle diseguaglianze, la crisi sanitaria in atto ha messo sale sulle ferite. Sia la pratica che la grammatica confermano che nuovi focolai di diseguaglianza si sono formati – per aree geografiche, per settori, per fasce di età, per tipi di contratti lavorativi… – e anche le imponenti misure di sostegno non hanno potuto essere calibrate adeguatamente: hanno sostenuto la media di Trilussa ma hanno lasciato scoperte sacche di povertà e grosse nicchie settoriali.
Come detto da sempre, la variabile principe per monitorare l’uscita dal virus sono le vaccinazioni. Queste continuano e spesso accelerano. Ma i livelli di protezione vaccinale sono diseguali, anche se ovunque crescenti. La percentuale (rispetto alla popolazione) di coloro che hanno ricevuto almeno una dose è molto alta (75%) in Usa e nel Regno Unito, fra il 25 e il 40% nei Paesi dell’Eurozona, ma solo del 15% per il mondo intero (India: 12%).
Il caso delle Seychelles è di ammonimento: l’arcipelago ha solo 100mila abitanti, e ha potuto vaccinare oltre il 60% della popolazione. Ma ha appena dovuto reintrodurre le restrizioni per l’emergere di molti nuovi casi. Come già detto il mese scorso, il pericolo è quello di sempre: i progressi nei contagi spingono ad allentare, e gli allentamenti portano a nuovi contagi. Guardando avanti, è possibile e probabile che il coronavirus rimanga endemico, e ci costringa a richiami annuali, come succede già adesso con il suo stretto parente, il virus dell’influenza.
Il mese scorso avevamo detto, a proposito dell’inflazione, che qualche pressione in più è prevedibile, se non addirittura auspicabile. E le ‘pressioni in più si vedono nei dati. A parte fattori temporanei già menzionati (Iva in Germania, revisione del paniere dei prezzi nell’Eurozona…) c’è, nel tasso tendenziale, un confronto con i mesi del 2020 quando l’urto del virus sull’economia era massimo e i prezzi si raffreddavano.
Ma ci sono anche fattori non occasionali di aumento: i prezzi delle materie prime (ormai bisogna considerare anche i chip fra queste) sono in tensione per l’aumento della domanda nei due principali assorbitori – Usa e Cina – che sono anche le due economie più avanti nella ripresa. Tuttavia, anche se, nel caso dei chip, la risposta dell’offerta è lenta, questo non è il caso delle altre materie prime, e le tensioni sui prezzi dovrebbero riassorbirsi.
Per adesso le tensioni sono forti: rispetto a un anno fa, quando la crisi impazzava, le materie prime non-oil registrano aumenti di quasi il 50%, e il petrolio dell’80 e passa per cento. Ma a livello dei prezzi al consumo, che pure stanno superando il famoso 2%, le ripercussioni sono modeste e, come già detto, i fattori strutturali che tengono il coperchio sull’inflazione, sono forti e duraturi.
Le tensioni sui prezzi al consumo e alla produzione andranno a riversarsi sui tassi? Il Segretario al Tesoro Usa, Janet Yellen, ha inciampato nella comunicazione e ha detto che i tassi saliranno in linea con la ripresa, anche se poi si è mezzo rimangiata l’esternazione. Il presidente della Fed Powell già da tempo ha detto che anche se l’inflazione salirà, loro non cambieranno politica monetaria, dato che l’obiettivo dell’inflazione al 2% va considerato nella media del ciclo, e se prima era, mettiamo, all’1%, anche se andasse al 3% non ci sarebbero conseguenze (Trilussa non avrebbe avuto niente da dire).
E in effetti i mercati hanno mantenuto un’olimpica calma. I tassi del T-Bond a 10 anni (che, oltre a preoccuparsi dell’inflazione, dovrebbero in teoria preoccuparsi anche del deficit pubblico monstre americano) sono perfino scesi rispetto al mese scorso, quando avevano superato 1,70%; ora sono sotto l’1,60. Sono invece leggermente saliti invece i rendimenti dei Bund, solo nel senso che si sono fatti un po’ meno negativi.
Lo spread con i BTp è salito verso quota 110, confermando che quando i tassi salgono, salgono un po’ di più in Italia rispetto alla Germania. Comunque, lo spread si mantiene sotto i livelli pre-Draghi (aveva superato quota 120 a gennaio). Il livello dei rendimenti del BTp, intorno al 0,90%, è storicamente basso, e, grazie agli acquisti della Bce, nettamente più basso di quello dei T-Bond).
I tassi reali non sono variati di molto. Si mantengono sotto zero sia in Germania che in Usa (il che è di conforto all’economia) e sono tornati sopra zero in Italia (si spera sia a causa delle migliorate prospettive di crescita).
Per i cambi, il differenziale dei tassi, nominali o reali, è variato a sfavore del dollaro, il che può spiegare il ritorno verso quota 1,20 contro euro. Ma fattori strutturali sono anche in gioco. Come afferma il Fondo monetario, la quota del dollaro nelle riserve valutarie del resto del mondo è in diminuzione. Nel quarto trimestre del 2020 è scesa al 59%, il livello più basso da 25 anni.
Gioca il ruolo crescente delle monete alternative, fra le quali bisogna contare anche lo yuan. Le sanzioni finanziarie Usa hanno anche avuto un’influenza, secondo la “legge delle conseguenze inattese”: hanno spinto i sanzionati (ma anche i sanzionabili) a creare canali di pagamento che non passano per il dollaro, dal semplice baratto agli accordi bilaterali per cui due Paesi accettano di pagare ed essere pagati nelle proprie monete.
Malgrado il differenziale di crescita a favore del dollaro, non sono da attendersi strappi verso l’alto del biglietto verde. Lo yuan si è apprezzato anch’esso sulla moneta Usa, e ora quota 6,45 – il livello più forte dal 2018 e migliore del 9% circa rispetto a un anno fa.
I mercati azionari, come detto la volta scorsa, rimangono sul bello stabile. La sola nube all’orizzonte sta nella citata scarsità di chip che potrebbe portare ad una anomala recessione. Ma le case automobilistiche – e lo stanno già facendo – potrebbero ovviarvi con modelli ‘chip-lite’ – in fondo i disegni e le specifiche li hanno già nei cassetti – e lo stesso si può dire per altri prodotti ad alta intensità di chip. Non bisogna mai sottovalutare l’ingegnosità umana…
Le alternative all’investimento azionario rimangono poco attraenti, malgrado i leggeri aumenti dei tassi. L’oro si guarda l’ombelico e le criptovalute sono per gli amanti dell’ottovolante…