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Economia: l’Italia s’è desta e avvista il boom

FIRSTonline

Dalle quasi-macerie della pandemia l’economia italiana sta uscendo molto meglio del previsto. Anche se non ancora «più grande e più bella che pria». Sebbene il Governo Draghi stia cercando di compiere anche il miracolo di innalzare il potenziale di crescita del Paese.

Una volta tanto, per l’economia italiana i rischi sono verso l’alto; cioè il PIL, con annessi e connessi occupazionali, “rischia” di aumentare molto più di quanto non immaginino i previsori. Sia gli indicatori avanzati che gli indici di fiducia confortano questo giudizio, già adombrato dalle Lancette dell’economia il mese scorso.

Invece, c’è un Paese per il quale alcuni auspicano che i rischi volgano al basso: gli USA, dove un’economia in ripresa per conto suo, grazie ai sostegni già avuti lo scorso anno, al suo proprio dinamismo e alla campagna vaccinale, ha ricevuto e riceverà un super-stimolo da politiche di bilancio super-generose e politiche monetarie ancora molto accomodanti. Tanto che c’è chi teme un surriscaldamento. La questione è controversa. In effetti i dati della congiuntura sono da boom, ma incliniamo a essere d’accordo con quanti, dal Segretario al Tesoro Janet Yellen a Paul  Krugman, pensano che gli annunci di un’economia ‘fuori giri’ siano – come disse Mark Twain dopo aver letto sul giornale l’annuncio del suo decesso –  prematuri. E in ogni caso, sentitamente ringraziamo per il traino al resto del Mondo.

Gli organismi internazionali stanno rivedendo al rialzo le previsioni per i PIL del mondo, di conserva alla ritirata del virus e all’avanzare delle vaccinazioni. I nuovi casi di Covid-19 continuano a convergere verso il basso. A inizio anno i nuovi casi per milione di abitanti erano fortemente divergenti: prendendo Usa, Europa e mondo, il valore più alto (Usa, 610) era otto volte quello più basso. Gli ultimi dati danno per le tre dimensioni geografiche una convergenza verso valori compresi fra 40 e 60.

La convergenza è altrettanto importante della discesa, perché vuol dire che diminuiscono le probabilità di contagi incrociati. Il che non vuol dire che non siano possibili recrudescenze. Lo insegna l’esperienza del Regno Unito: malgrado l’altissima copertura delle vaccinazioni, è l’unico Paese europeo ad aver registrato nell’ultimo mese un aumento dei contagi, che sono oggi superiori a quelli di Italia e Germania.

Le vaccinazioni accelerano: la percentuale, rispetto alla popolazione, di coloro che hanno ricevuto almeno una dose, è intorno al 45% nell’Europa continentale, al 60% nel Regno Unito, al 50% in Usa, anche se appena del 12% nella media mondiale. Comunque, in netto aumento dappertutto. Si moltiplicano, giustamente, gli inviti a distribuire i vaccini nei Paesi più poveri. Come già detto più volte, non saremo mai davvero al sicuro se tutti non saranno al sicuro. E donare il vaccino a chi non lo ha è un regalo a se stessi, perché aiuta molto a tornare alla normalità.

La ripresa che si rassoda – e non solo in Italia – sarà ‘virtuosa’, come si chiamava una volta una fase ascendente del ciclo in cui primeggiano gli investimenti. Dietro questa ‘virtù’ ci sono vari fattori: da una parte, la virtualità, che è venuta a sostituire la fisicità degli incontri e del lavoro, necessita di imponenti investimenti per rafforzare le connessioni e, in generale, per ‘digitalizzare’ molte procedure (e non dimentichiamo l’impellente bisogno di aumentare la capacità produttiva i chip, come già menzionato il mese scorso, e delle batterie per le auto elettriche).

Dall’altro lato, i programmi di sostegno all’economia in giro per il mondo sono ad alta intensità di investimenti per le infrastrutture. Ancora, i profitti delle imprese sono stati protetti dalle misure economiche e il costo del capitale è assai picciola cosa, anche se durerà più tempo di quanto Leopardi diceva delle vicende umane. C’è una quarta considerazione: la crisi, come succede di solito, ha lasciato sul campo le imprese più deboli, e quelle che rimangono sono normalmente le più propense a investire.

In Italia, ma è male comune, ci sono problemi a far incontrare domanda e offerta di lavoro: la crisi ha rimescolato le strutture produttive, e i vari piani di sostegno, dai PNRR ai trilioni di dollari di Biden, spaziano in iniziative che richiedono professionalità diverse da quelle disponibili. Ecco la necessità di politiche attive del lavoro.

Che comunque sarebbero cosa buona, giusta e necessaria in un’epoca in cui il cambiamento è così veloce da ricordare le gesta napoleoniche («il fulmine tenea dietro al baleno») e da spiazzare eserciti di persone. In ciò la rapidità del cambiamento non è un bene, a differenza delle gesta di Napoleone, dato che chi rimane indietro nel lavoro e nel reddito vota a favore di populisti e sovranisti.

L’inflazione sembra esserci, a livello di materie prime e di prezzi alla produzione. I fattori sono molteplici. L’offerta era stata ostacolata dalla pandemia: sia per le operazioni minerarie (chiusure, quarantene…) che, soprattutto per i costi di trasporto (congestione dei porti, problemi di reclutamento degli equipaggi, rimbalzo dei prezzi dei carburanti…). La domanda è sostenuta anche dalle aspettative di nuovi rincari, che inducono ad accumulare scorte.

D’altra parte, i mercati sanno che la transizione a un’economia ‘verde’ e gli ambiziosi programmi di infrastrutture (rame, minerale di ferro…) fanno sì che la ‘intensità di metalli’ del Pil prossimo venturo andrà a essere più elevata. Come ha osservato la International Energy Agency, un’accelerazione nella transizione energetica richiederà un aumento di 40 volte del fabbisogno di litio, necessario per auto elettriche ed energie rinnovabili; mentre l’aumento del consumo di grafite, cobalto e nickel, per gli stessi fini, sarà di 20-25 volte superiore ai livelli attuali.

Passando dai prezzi alla produzione ai prezzi al consumo, una qualche accelerazione è inevitabile, e si vede già nei dati americani (peraltro distorti dal fatto che il confronto sui 12 mesi pesca in periodi di inflazione bassa), meno in quelli europei. L’aumento dei prezzi al consumo esclusi energia e alimentari è sotto l’1% annuo in Italia e nella media Eurozona. Ma la dinamica dovrebbe mantenersi su livelli non preoccupanti, perché i fattori strutturali più volte menzionati dalle Lancette (globalizzazione, vendite online, maggiore produttività da digitalizzazione dell’economia) terranno un coperchio sugli aumenti dei listini.

Ci chiedevamo, il mese scorso: le tensioni sui prezzi al consumo e alla produzione andranno a riversarsi sui tassi? Ci sarà una ripetizione del ‘taper tantrum’ del 2013, quando un mini-panico invase i mercati mondiali? Allora la Fed si apprestava a tirare in remi in barca e ad assottigliare gli acquisti di titoli per il Qe. E qualcosa di simile potrebbe accadere oggi; e come allora dall’America le tensioni sui tassi si allargherebbero ovunque, danneggiando in particolar modo gli emergenti.

Ma la Fed ha imparato la lezione del 2013, e il possibile taper, che pure andrebbe a far parte delle deliberazioni prossime venture del FOMC, avrà in ogni caso un passo glaciale. Potrebbe iniziare a fine anno, o all’inizio del 2022. Così come nel caso dell’inflazione, anche per i tassi ci sono aumenti buoni e aumenti cattivi: se gli aumenti sono dovuti a un’economia che si rafforza, si tratta di aumenti buoni, cioè fisiologici, che fanno parte dei normali meccanismi dell’economia.

Comunque, questi aumenti per ora non si vedono, malgrado il fatto che i mercati siano sempre pronti (spesso troppo pronti) ad anticipare il futuro (o a veder «dinanzi, quel che’l tempo seco adduce», come dice più elegantemente il Poeta). I rendimenti dei T-Bond sono perfino scesi rispetto al mese scorso, mentre quelli del Bund e dei BTp sono poco variati, con uno spread anch’esso stabile.

I tassi reali, complici gli aumenti dell’inflazione, sono più negativi di prima in Usa e in Germania, e poco sopra lo zero in Italia. Anche se aumentassero, continuerebbero a essere di aiuto alla ripresa in corso, perché inferiori al tasso di crescita.

Con un’economia che cresce più che altrove (ma non più che in Cina), gli USA dovrebbero attirare capitali. Ma il cambio del dollaro contro euro (non dimentichiamo che più del 90% della domanda e dell’offerta di valuta è dovuto ai flussi di capitali) è fermo sui livelli del mese scorso, a loro volta deprezzati del 10% circa rispetto ai livelli pre-pandemia. Un analogo deprezzamento rispetto a fine 2019 si è verificato rispetto allo yuan, e qui l’andamento è più comprensibile, dato che il differenziale di crescita gioca a favore del Celeste Impero.

La forza relativa dell’euro dipende anche dal differenziale dei tassi reali a lunga, dove il passato vantaggio del dollaro si è quasi azzerato. E dipende anche dal fatto che le scommesse dei flussi potrebbero essersi volte a favore dell’Europa, dove l’economia sta migliorando rapidamente. La configurazione dei cambi, comunque, appare stabile in relazione alla fase ciclica dell’economia mondiale, e non sono da attendersi strappi particolari.

I mercati azionari, si è detto nelle Lancette scorse, rimangono sul bello stabile. E hanno ragione. C’è del metodo in questa follia amletica. Come già osservato, i tasselli del mosaico – strutturale e congiunturale – sono tutti favorevoli all’investimento azionario (ma questo non è un ‘consiglio per gli acquisti’).

Ci sono spine in questa rosa? Le sole spine potrebbero venire da quegli accadimenti cui non crediamo: impennata dell’inflazione seguita da impennate dei tassi. Che abbiamo escluso. Perciò le alternative all’investimento azionario rimangono poco attraenti.

Un momento: abbiamo dimenticato il Bitcoin! Il giovane populista presidente di El Salvador, Nayib Bukele, ha dichiarato che il Bitcoin acquisterà status di moneta legale nel suo paese. E, ha aggiunto, se l’1% dei Bitcoin nel mondo andasse a investirsi nel El Salvador, il suo PIL aumenterebbe del 25% (!??). A proposito del Bitcoin, non siamo stati teneri nel passato: abbiamo detto che era per gli amanti degli sport estremi e/o dell’ottovolante. E nell’ultimo mese i fatti ci hanno dato ampiamente ragione: la caduta dai massimi ha raggiunto il 40%.

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Categories: Economia e Imprese