Il trio tecnologia/conversazione/contenuto
Lo sviluppo degli ebook e delle applicazioni non è solo tecnologia o business. La tecnologia non è mai stata solo tecnologia. “L’essenza più profonda della tecnica non è nulla di tecnico.” asserisce Martin Heidegger nella prima pagina de La questione della tecnica. Senza l’invenzione della stampa a caratteri mobili non ci sarebbe stata la Riforma protestante, o sarebbe stata differente. La tecnologia ha un impatto enorme sulla creatività e sui modi in cui si esplica e si diffonde un contenuto. Basterebbe guardare come il linguaggio teatrale si è tramutato in cinema dopo che Georges Méliès nel 1902 ha infilato una pallottola nell’occhio della luna. Erano passati appena sei anni dal treno dei fratelli Lumière. Un tempo brevissimo.
Nell’epoca dei nuovi media o dei personal media, il contenuto sarà differente da quello affermatosi nell’era dei mass media o dei media industriali. Come non si stanca di ripetere Derrick de Kerckhove la relazione sui nuovi media è una conversazione dove tende a scomparire la distinzione tra ruoli e gerarchie. La conversazione determina la costruzione, ricezione, diffusione e anche il lascito di un contenuto. Ed è proprio la tecnologia che abilita la conversazione.
La costruzione delle Sfumature come contenuto aperto
Il più grande bestseller degli ultimi dieci anni, le Cinquanta sfumature di grigio, è stato costruito proprio sulla rete come un contenuto aperto. La sua genesi è stata raccontata dalla sociologa israeliana Eva Illouz in un recente libro tradotto anche in italiano. La Illouz descrive bene il processo di creazione/conversazione/ricezione che la James ha sperimentato con la sua opera. Ha scritto a proposito:
“Molti libri e programmi televisivi contemporanei sono caratterizzati dal mescolarsi tra i processi di produzione e di ricezione, che li rende virtualmente indistinguibili o, meglio, la ricezione è diventata una parte del processo di scrittura/produzione che comunica direttamente con la fantasia dei lettori e degli spettatori. Questo processo è chiamato “prosumption”. Il consumatore/lettore/spettatore che partecipa alla creazione della merce che sta consumando è una delle trasformazioni più significative del processo di consumo. Nella versione internet per fan fiction, Cinquanta sfumature di grigio (come l’Oprah Winfrey Show o i Reality show) incorporava direttamente i suggerimenti dei lettori, così che si può presumere che i significati e le svolte narrative gradite ai lettori furono incorporate nella narrazione”.
È quello che è accaduto con il romanzo erotico della James. Forse si deve a questo processo creativo il fenomeno d’identificazione di milioni di lettori comuni con i personaggi e la storia. Chi meglio della folla dei lettori conosce i propri gusti?
Verso un contenuto totale
Ma la cosa che fa più riflettere è la radicalità del cambiamento che i nuovi media possono rappresentare per il contenuto. È proprio il software il protagonista di questo cambiamento. È il software che mette nelle mani del creativo molteplici mezzi per lo storytelling: la lettura, la visione, la simulazione, l’ascolto, l’interazione, l’alterazione. Il software rende possibile la creazione di un’opera di sintesi che finora era qualcosa d’irrealizzabile per l’impossibilità di produrla, diffonderla e di riceverla.
Con uno smartphone o un tablet adesso è possibile riceverla anche in vetta a un monte. Nei suoi studi di logica il filosofo tedesco Hegel dedica molte pagine a esporre un teorema fondamentale per capire la natura della tecnologia. Hegel dice che quando un fenomeno aumenta quantitativamente non si ha solo una variazione numerica di quantità, ma si ha una trasformazione qualitativa radicale dello scenario. Oggi con gli smartphone e i tablet in mano a un terzo della popolazione terrestre sta succedendo proprio questo fenomeno. Che cosa si fa con questi strumenti? Si consumano contenuti di tutti i tipi e si conversa. Ecco perché si avrà una trasformazione radicale dei contenuti e delle arti liberali.
Non è più neppure l’opera di un artista o di un autore solitario, ma il risultato di un lavoro d’équipe dove si cristallizzano differenti competenze e differenti talenti. In questo processo si viene a determinare anche una grande contaminazione interdisciplinare. Nel congiungimento dei vari codici espressivi si realizza lo sgretolamento dei differenti generi artistici e della loro gerarchia. Non è proprio il ritorno dell’idea romantica della Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale), ma qualcosa che ha una certa parentela con quell’idea. Mancano ancora gli autori, gli artisti, gli editori e infine manca anche il mercato, ma i fondamenti ci sono già tutti. Adesso abbiamo bisogno del nuovo Méliès a mostrarci la strada; qualcuno che vada oltre l’ingenua idea di far scegliere il finale al lettore. Oggi è forse il videogioco tridimensionale la forma che più si avvicina all’idea di opera totale.
Alla ricerca del nuovo contenuto
Nel 2013 presso la Columbia University è stato aperto il Digital Storytelling Lab che ha lo scopo di sperimentare nuove forme narrative idonee al pubblico che legge pochi libri o si siede raramente in una sala cinematografica, ma legge e scrive tantissimo sui social media e consuma ore ed ore di video su YouTube, Vine o Netflix. Nel manifesto del laboratorio della Columbia (che vanta la più prestigiosa scuola di giornalismo del mondo) si legge: “La tecnologia, come partner della creatività, ha sempre modellato i modi in cui le storie sono scoperte e narrate. Nel XXI secolo, per esempio, la democratizzazione di massa dei mezzi creativi – linguaggi, dati e algoritmi – ha cambiato la relazione tra autori e audience”. Meglio non si poteva descrivere il contesto in cui cade un contenuto.
In un altro documento del laboratorio viene espresso con chiarezza un aspetto fondamentale della discussione intorno ai contenuti nei nuovi media. È l’egemonia dei tecnologici e il distacco dei creatori del contenuto, gli autori, gli artisti, gli editori. È questo distacco che rende lo sviluppo di nuove forme di storytelling ancora balbettante e incerto. In questo documento si legge: “C’è stata una grande discussione sui modi in cui le nuove tecnologie e le nuove piattaforme stanno cambiando lo storytelling, ma molta di questa discussione avviene nella parte tecnologica. Manca proprio la parte che crea lo storytelling”.
Quando la Apple presenta al pubblico un nuovo dispositivo difficilmente dimentica di enfatizzare come il gadget di turno (Tim Cook l’ha fatto pure con l’Apple Watch) sia in grado di “liberare una nuova ondata di creatività”. Un’affermazione quasi rituale per una società che si propone di collocarsi sul punto d’intersezione tra le arti liberali e la tecnologia. Eppure è proprio quello che è successo con l’iPhone e il l’iPad che sono diventati tra i più importanti mezzi per veicolare i contenuti tramite le applicazioni e gli ebook.
L’innovazione del contenuto negli ebook
Finora si è visto pochissimo e tutto fuori dai grandi circuiti. Dopo otto anni dall’introduzione del primo Kindle e del primo iPhone il bilancio è desolante al limite di un’occasione sprecata. La colpa deve essere parimente distribuita tra i grandi editori e i tecnologici. Grandi editori e tecnologici litigano ferocemente e se ne fanno di tutti i colori come nella Guerra dei Roses. Tim Cook, in un’intervista riportata dal Financial Times, ha detto “L’amara verità è che c’è un muro di Berlino tra la Silicon Valley e chi crea i contenuti. Non si rispettano e non si capiscono”. C’è pero una cosa dove editori e tecnologici copulano come una coppia in luna di miele. Vanno d’accordo nel tenere gli ebook in uno stato di minorità.
Nonostante la buona accoglienza degli ebook presso il grande pubblico, nonostante i buoni margini degli ebook per gli editori e gli autori, nonostante le enormi potenzialità del linguaggio ePub e dei dispositivi dove si leggono, l’ebook è tutt’oggi una mera copia digitale del libro, una differente modalità di distribuzione di un contenuto tradizionale.
I grandi editori e i grandi autori, che ancora controllano l’editoria, lo vogliono così e v’investono pochissimo, quando addirittura non ne ostacolano lo sviluppo. I tecnologici non sono da meno. O si accodano agli editori come fa la Apple (noi siamo i loro migliori alleati, ha dichiarato Tim Cook nell’intervista citata) o li contrastano unicamente sul piano commerciale come Amazon che, dall’altro canto, continua a proporre e investire in tecnologie flinstoniane attraverso le quali è impossibile creare un contenuto di nuova generazione. Ecco che l’ebook, privato di un contenuto distintivo e specifico, perde il confronto con il libro che è ancora uno dei manufatti di maggiore affezione per il grande pubblico.
Chi innoverà allora? Fortunatamente ci sono tante start-up nate sulla rete, cresciute con la cultura della rete che hanno iniziato un percorso di innovazione sul web, con le applicazioni, con i social media, con l’editoria di nuova generazione. Ci sono anche nuove figure di creativi, fuori dai circuiti culturali tradizionali, che si stanno creando un audience di nuovo tipo con proposte di format e di nuovi linguaggi che troveranno il modo di evolversi dalle prime informi sperimentazioni verso qualcosa che diventerà mainstream.
L’innovazione del contenuto nelle app
È proprio con le app che si vedono le cose migliori. È proprio il fattore interattivo, che è il segno distintivo delle app rispetto agli altri media, a fare la differenza. È l’azione attesa dagli utenti che costringe i creatori di contenuti a confrontarsi con l’innovazione di prodotto. Forse è proprio con le app che sta emergendo di una nuova forma di racconto, specifico di Internet. Raccontate con differenti media in un modo non lineare, queste nuove forme di contenute attivano un coinvolgimento del lettore/spettatore che è simile a quello dei videogiochi. Si tratta di narrazioni pienamente e profondamente immersive, più immersive di un libro, di un film, di uno spettacolo teatrale. Lo storytelling in questo contesto abbatte quelle distinzioni di mezzi e di ruoli che erano propri del contenuto distribuito attraverso i media di massa. Le distinzioni che vengono meno sono quelle tra autore e audience, tra narrazione e gioco, tra finzione e realtà.
Una delle migliori realizzazioni di questa forma immersiva è un’applicazione dal nome Karen che è una via di mezzo tra un racconto e un gioco attraverso il quale, e soprattutto con l’interazione tra il “soggetto” e il software, il primo arriva a una maggiore conoscenza di se stesso. È un percorso che può durare più giorni. Frank Rose, autore del best seller The Art of Immersion (ed. italiana, Immersi nelle storie. Il mestiere di raccontare nell’era di Internet, Codice edizioni), e studioso di questi fenomeni, ha dedicato un articolo a Karen, “Karen, an App That Knows You All Too Well”, ospitato dal “New York Times”. Ai lettori di ebookextra lo offriamo nella traduzione italiana di Ilaria Amurri. Per chi fosse interessato ad approfondire il pensiero di Frank Rose può leggere questo post “L’arte di raccontare nell’epoca dei personal media“.
Karen
Vi piacerebbe assumere un life coach, ma non riuscite a decidervi? Oggi molti App Store offrono alternative elettroniche per iPhone o Android, come Success Wizard, “per organizzarsi, concentrarsi e ottenere risultati concreti e duraturi”, o gli innumerevoli esercizi di LiveHappy, ideati dalla psicologa californiana autrice di The How of Happiness; c’è poi Niggle, per chi vuole “un amico tascabile, reperibile 24 ore su 24”, e presto il gruppo inglese Blast Theory lancerà un’applicazione davvero rivoluzionaria: Karen, il coach virtuale che sconvolge gli utenti lasciandoli decisamente interdetti.
Karen è un‘opera d’arte interattiva controllata da un software, una via di mezzo tra una storia e un gioco. Progettata per durare alcuni giorni, quest’esperienza volutamente scioccante ha lo scopo di farci mettere in dubbio il nostro rapporto con i dispositivi digitali, che possono arrivare a conoscerci meglio di quanto immaginiamo.
A differenza di molte altre applicazioni di life coaching, Karen comunica attraverso un video, anziché un testo, sfumando ulteriormente il confine tra la realtà e il mondo virtuale.
La coach (impersonata da Claire Cage, attrice di serie come Coronation Street e Being Human) si rivolge direttamente all’utente e gli pone una serie di domande. È ammiccante, amichevole… forse un po’ troppo amichevole. “È appena uscita da una storia lunga”, spiega Matt Adams, uno dei tre membri di Blast Theory, “e non vede l’ora di provare qualcosa di nuovo in rete”.
Che cosa è Karen
Il comportamento di Karen dà luogo a dinamiche che ricordano in parte il film Her (di Spike Jonze, 2013), in cui il protagonista, interpretato da Joaquin Phoenix, si innamora di un sistema operativo. In questo caso, però, a comportarsi in modo strano è l’applicazione Karem stessa: “si prende una specie di cotta”, racconta Adams, “e dopo circa dieci giorni ti dice ciò che ha imparato su di te, anche se non ti spieghi come faccia a sapere certe cose”.
Il bello è che non è un film, ma un’applicazione personalizzata per smartphone e tablet: qui non c’è la “quarta parete” di Her, la storia parla di te, Karen si adatta e prende forma grazie alle informazioni che vengono fornite, trae conclusioni in base alle tue scelte e man mano che ti apri, lei si apre a te, in modo sempre più anomalo per una normale seduta di life coaching.
Karen può essere scaricata dall’App Store di Apple e parteciperà al concorso Storyscapes del Tribeca Film Festival, dedicato al racconto interattivo. “Mi piace l’idea di un coach che si comporta male”, dice Ingrid Kopp, direttrice della sezione interattiva del Tribeca Film Institute e curatrice del concorso, “ho pensato che sarebbe stata perfetta per i newyorchesi!”.
È da un pezzo che la Kopp ha messo gli occhi su Blast Theory ed è facile capire perché: a cinquanta chilometri da Londra, nella località balneare di Brighton, la squadra affronta ogni giorno nuove sfide tecnologiche, unendo gioco, narrazione e azione. “Ci interessa soprattutto il rapporto con i cellulari e cerchiamo di sfruttarli in quanto spazio culturale”, spiega Adams. “Con Karen abbiamo voluto studiare il modo in cui gli esseri umani entrano in relazione con il software”.
La cosa strana è che di solito i personaggi virtuali non hanno la capacità fare leva sull’ego dell’utente, né di adattarsi alla sua personalità, una peculiarità che fa di Karen uno strumento unico, che ci permette di riflettere sul difficile rapporto tra la personalizzazione digitale e il solipsismo umano. “È un po’ come fare un patto col diavolo” aggiunge Adams, parlando della tendenza a personalizzare le applicazioni, “ma ci stiamo addentrando in uno spazio immenso e inesplorato, che noi stessi facciamo fatica a comprendere”.
Tra realtà e finzione
Blast Theory si avventura da sempre ai confini della realtà: uno dei primi progetti, l’installazione del 1999 chiamata “Desert Rain”, ricreava uno scenario di guerra sullo sfondo di un deserto virtuale, proiettando immagini su una parete d’acqua, un mezzo che confonde la percezione di ciò che è reale e ciò che è digitale. I sei giocatori avevano venti minuti per trovare sei personaggi e uscire vivi da un mondo angosciante, ma solo alla fine, guardando un video, si rendevano conto che quelle persone erano realmente esistite (un soldato britannico, un giornalista della BBC, un diplomatico, ecc.) e che la loro esperienza era ambientata nel 1991, durante la Guerra del Golfo.
Il progetto “Ulrike and Eamon Compliant”, commissionato per la Biennale di Venezia del 2009, consisteva nel far entrare il giocatore in una stanzetta di legno, nelle sale barocche di Palazzo Zenobio, dove gli era chiesto di scegliere un cellulare e un’identità: o Ulrike, giornalista e madre single della Berlino Ovest, o Eamon, doganiere dell’Irlanda del Nord e padre di quattro figli.
Seguendo le istruzioni attraverso un telefono, i giocatori si incamminavano nei vicoli labirintici di Venezia e apprendendo notizie di omicidi e di rapine in banca si rendevano conto di aver scelto Ulrike Meinhof, leader della Rote Armee Fraktion, o Eamon Collins, membro estremista dell’esercito repubblicano irlandese, due famosi terroristi degli anni ’70 e ’80. Alla fine, alcune domande rivelavano quanto sia facile oltrepassare il limite dell’idealismo diventando assassini.
Karen, come “Desert Rain” e “Ulrike and Eamon Compliant”, è stata sviluppata con il contributo del Mixed Reality Lab dell’Università di Nottingham, che studia il modo in cui le tecnologie digitali possono influenzare la vita di tutti i giorni, ad esempio nell’ambito della privacy (di recente, attraverso un test di leggibilità, il laboratorio ha scoperto che leggere i termini di servizio di Google è come leggere un poema epico, quanto a difficoltà) e della gestione dei dati che compongono l’identità in rete.
“Karen è l’espressione artistica di questi interrogativi”, afferma Steve Benford, un Professore del Mixed Reality Lab che ha lavorato spesso con il gruppo tecnologico inglese, “in puro stile ‘Blast Theory’, sovverte i principi fondamentali della progettazione dell’esperienza dell’utente”, che tendono a limitare le fonti di disagio, invece di introdurle. Il laboratorio ha avviato una collaborazione con Nick Tandavanitj di Blast Theory, al fine di sviluppare nuove tecnologie di profilazione dell’utente: il progetto è co-commissionato da Space, una piattaforma di arte digitale fondata dalla BBC e dall’Arts Council of England, e sviluppato in collaborazione con National Theatre Wales, che l’estate prossima ospiterà un evento speciale rivolto a un numero limitato di utenti di Karen; 28 000 dollari di finanziamenti sono stati ottenuti grazie a Kickstarter.
Per rendere Karen più verosimile, Blast Theory si è rivolta a Kelly Page, un’esperta di Chicago che ha messo insieme varie tipologie test psicologici, fra cui questionari che valutano la capacità di ripresa emotiva o definiscono i cinque tratti della personalità (apertura mentale, coscienziosità, estroversione, gradevolezza, piacevolezza e stabilità emotiva).
Il metodo di Karen
Come tutte le applicazioni di coaching, Karen inizia con qualche domanda riguardante la sfera emotiva dell’utente: in generale, pensi di essere una persona ottimista? Ritieni di avere avuto un’infanzia felice? Pensi di saper reggere lo stress? Cerchi di pensare positivamente anche quando soffri o sei in difficoltà? Ma le altre applicazioni non si mettono a parlare del loro divorzio e non ti fanno sbirciare da una porta socchiusa per spiare un ragazzo di nome Dave, confidandoti senza fiato che è completamente nudo.
Dopo aver capito meglio la relazione emotivamente complicata tra Dave e Karen, sarai invitato a unirti all’uno o all’altra per una scappatella. Fino a che punto sarai disposto a spingerti? La tua risposta sarà più rivelatrice di qualsiasi altra cosa tu abbia detto fino a quel momento.
All’inizio, durante la fase di conoscenza, Karen ti guarda e dice “se ti confidi con me, posso aiutarti a capire cose di te stesso di cui neanche ti rendevi conto”: lo promette ogni applicazione di life coaching, ma in questo caso è proprio vero. Gli utenti sapranno quanto Karen ha appreso su di loro solo alla fine dell’esperienza e a questo punto saranno invitati ad acquistare (per $3.99) l’ampio profilo psicologico che l’applicazione ha compilato con sconcertante precisione. Tuttavia, spiega Adams, l’obiettivo di Karen non è di “risolvere i tuoi problemi accumulando informazioni e il suo giudizio non va preso troppo sul serio”.
Quest’applicazione può essere interpretata come un gioco, ma quando inizia a coinvolgerci più da vicino iniziamo a capire quanto sia labile il confine che ci separa dai nostri dispositivi. Karen prefigura un futuro in cui la definizione di ciò che è umano diventa sempre più ambigua e non perché uno scienziato pazzo ha creato una razza di robot umanoidi, ma perché vogliamo avere un amico tascabile che si comporti come se ci conoscesse… o almeno pensiamo di volerlo.
In ogni caso, come osserva giustamente Matt Adams “è sempre intrigante avere a che fare con qualcosa che ci attrae e ci respinge allo stesso tempo”.