Lo scenario emerso dal primo turno delle elezioni presidenziali, tenutosi lo scorso 5 ottobre, mostra un Brasile spaccato a metà, con le regioni del nord e nordest (storicamente le più arretrate del paese) saldamente in mano alla presidente uscente Dilma Rousseff e il centro-sud spostato più a destra, verso il candidato dei socialdemocratici Aécio Neves. Una fotografia che riflette la polarizzazione tra i due maggiori partiti del paese, il partito dei Lavoratori (PT) e la socialdemocrazia (PSDB), che prosegue ininterrotta dal 1994.
Nemmeno l’ambientalista Marina Silva, che si era proposta come terza via per il cambiamento, è riuscita a scalfire il duopolio: al primo turno ha raccolto un deludente 21% dopo essere subentrata a campagna elettorale già in corso al candidato socialista Eduardo Campos (morto ad agosto in un incidente aereo). La commozione generata dalla tragedia la sbalzò temporaneamente in testa ai sondaggi, ma l’ex ministra dell’Ambiente del governo Lula non riuscì poi a tenere testa alla macchina da guerra elettorale di Dilma. Al ballottaggio ha dichiarato che sosterrà Neves perché “crede nell’alternanza”, ma se ci sarà il travaso di voti è tutto da vedere.
Il 26 ottobre, in ogni caso, i brasiliani saranno chiamati nuovamente alle urne. Mentre i sondaggi danno la Rousseff e Neves appaiati nelle intenzioni di voto, solo il ballottaggio dirà se prevarrà la linea di continuità sulle politiche sociali con un forte interventismo statale in economia promessa dalla presidente uscente o se gli elettori sceglieranno la politica più liberale, ma senza rinunciare al welfare introdotto dagli ultimi governi di sinistra, proposta dal dinamico socialdemocratico. I due si contendono 25 milioni di elettori indecisi.
Da un lato, la Rousseff può vantare successi incontestabili sul fronte sociale avviati da Lula e portati avanti negli ultimi 12 anni, con una nuova classe media ascesa ai consumi e una disoccupazione ai minimi storici. Dall’altro, Neves si propone come unica alternativa credibile al 59% degli elettori insoddisfatti dalla gestione del partito dei Lavoratori, travolto nel corso degli anni da numerosi scandali, ultimo in ordine di tempo quello che sta sconquassando con gravissime accuse di corruzione i vertici della Petrobras, il colosso del petrolio controllato dal governo.
Chiunque sarà il nuovo presidente, dovrà fare i conti con un Congresso estremamente frammentato, in cui siedono 22 partiti, e dal quale è uscito indebolito il Partito dei Lavoratori della presidente uscente (-18 deputati) e leggermente rafforzata la socialdemocrazia di Neves (+10 deputati). In ogni caso, per garantire la stabilità, ci sarà da accontentare al governo un gran numero di partiti e partitini. Per uscire dalla palude, entrambi i candidati promettono una riforma politica, con sfumature diverse, per cambiare la legge elettorale e le istituzioni.
PARLAMENTO CONSERVATORE
Quale che sia il risultato del ballottaggio, le urne sembrano già aver frustrato il desiderio di cambiamento espresso da milioni di brasiliani nelle oceaniche manifestazioni del giugno-luglio 2013. Il nuovo presidente, che governerà fino al 2018, sarà comunque espressione di uno dei due partiti che si contendono il paese da 20 anni, ovvero da sei elezioni consecutive.
Ma soprattutto, secondo uno studio dei sindacati, è cresciuto fortemente il fronte conservatore all’interno del Parlamento. Circa il 40% del Congresso è stato rinnovato, ma è aumentato il numero dei banchi occupati da esponenti evangelici (almeno 40 sono i vescovi e pastori), militari, poliziotti e proprietari terrieri, mentre si è ridotto quello vicino ai sindacati.
Tematiche come la depenalizzazione delle droghe, i diritti dei gay e l’aborto (il Brasile ha una delle legislazioni più restrittive al mondo) difficilmente entreranno nella discussione politica dei prossimi anni che si preannuncia incentrata sull’economia. Sia la Rousseff che Neves sono consapevoli che c’è da tenere sotto controllo l’inflazione e innalzare i livelli di crescita.
Da Scappo in Brasile